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Top Seven 2015

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Per attribuire a un film un valore particolarmente alto, per elevarlo magari al rango di “capolavoro”, sono determinanti le qualità stilistiche, in particolare gli elementi stilisticamente innovativi (soprattutto quando aprono nuovi linguaggi). Non se ne sono visti molti di film di tale spessore, fra quanti distribuiti in Italia nel 2015, e quei pochi (ad es. quello di Wenders menzionato in decima posizione; ma anche il film di Gaudino) non mi sono parsi di valore altrettanto importante di altri, magari stilisticamente più convenzionali, come alcuni di questi sette. Per quanto imprescindibile, lo stile va calibrato alla sostanza (beninteso non c’è sostanza senza stile), ed esistono capolavori il cui stile può non eguagliare esteticamente la bellezza di altri film, che capolavori non sono. …Tutto questo per dar conto, soprattutto, dei primi due posti: opere esteticamente senz’altro più convenzionali di quelle che pongo al 7° e al 6°, ad esempio (in particolare Moretti non ha mai avuto un senso straordinario della messa in scena; malgrado ciò non può non considerarsi l’autore italiano determinante della sua generazione).
Procediamo.

7. FRANCOFONIA di Alexandr Sokurov

L’arte e il potere. E le inesauribili implicazioni del loro rapporto. In “Francofonia” Sokurov affronta, con modalità quasi godardiane, uno dei nuclei portanti della propria poetica. Il potere che calpesta l’arte è lo stesso che ne ha bisogno; l’arte, costretta a tentare di sopravvivere alle intemperie della Storia, dalle sue vicissitudini trae alimento. Anche dalle più terribili: e proprio il cinema di Sokurov è lì a dimostrarlo. Il suo ultimo film non è (per alcuni) tra i suoi capolavori, ma a me pare cristallino nell’esporre i suoi temi, e potrei quasi preferirlo, soggettivamente, ad “Arca russa“, la cui perfezione tecnica ha una freddezza e una compostezza inumane, che mi hanno sempre quasi inibito. Vedi recensione per Ondacinema (link dal titolo).

Francofonia

6. BELLA E PERDUTA di Pietro Marcello

I film di Sokurov e Marcello hanno alcune affinità ai miei occhi: e al film del Grande Maestro antepongo, in questo gioco che è la classifica, l’imperfezione (voluta, come dimostra il ricorso ad esempio anche a pellicole scadute) di Pietro Marcello, che solo in superficie è meno “sublime”. “Bella e perduta” (un palazzo in rovina, sineddoche dell’Italia), nel suo candore, è film più genuino, autenticamente immaginifico. Dall’attrito tra il reale e la libertà creativa dell’immaginazione scaturiscono oggi film davvero essenziali per il futuro della settima arte: film poetici anzichè prosaici, opere scisse da una logica narrativa, liriche, che partono dalla concretezza della realtà per ricamarci sopra una fantasticheria dell’autore, che magari fiorisce in corso d’opera come è successo a Pietro Marcello. Qui davvero la non-perfezione è una ricchezza.

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5. QUANDO C’ERA MARNIE di Hiromasa Yonebayashi 

Spoiler alert. Due volte l’ho vista e due volte mi ha commosso, questa storia di una ragazza che si prepara alla vita confrontandosi con la propria nonna da ragazza. Quant’è bello il modo in cui qui si immagina di far rivivere a una nipote, in autentica empatia, i sentimenti provati dalla propria nonna mai conosciuta, come fosse una coetanea e un’amica. Per suggestioni, siamo dalle parti del mio adorato “La doppia vita di Veronica” di Kieslowski. Certo, la regia è un’altra cosa. Ma è pur sempre un Ghibli – auguriamoci aperto sul futuro – e le qualità di cui la casa è garanzia ci sono tutte.

marnie

4. L’ALTRA HEIMAT di Edgar Reitz

L’universo di Reitz, inesauribile nelle sue germinazioni, ha partorito un capolavoro che quasi eguaglia la grandezza del primo Heimat (pur mantenendosi inevitabilmente lontano dall’enorme valore della “Seconda Heimat”, ovvero dell’opera cinematografica più vicina alla Recherche di Proust). Questa storia di due fratelli, dei loro destini incrociati, possiede evidentemente qualcosa di archetipico, che Reitz declina in un film ricco di armonia e di suggestioni, di inarrivabile sapienza drammaturgica e scenografica. Si veda una delle dissolvenze incrociate più lunghe della storia del cinema, o la squisita semplicità dei tocchi di colore, o ancora i delicati ‘voli’ della macchina da presa sull’erba alta dei prati. Reitz dialoga con i più grandi, non solo del cinema, cui dà del Tu.

L'altra Heimat

3. FOXCATCHER di Bennet Miller

“Foxcatcher” è il film americano live-action migliore di questi ultimi due anni. Con una messa in scena strepitosa (Miller, al terzo film, è il regista statunitense più interessante e promettente della sua generazione), questo film che stordisce, dall’andamento ipnotico, è una formidabile tragedia contemporanea incentrata sull’individualismo e sul plagio, sul mito del successo e sullo sgretolarsi, sull’implodere delle ambizioni e delle ossessioni, sotto la forza di immane condizionamenti psicologici, primo dei quali quello edipico (Miller sfiora tematiche comuni a PT Anderson, si confronti questo film a “The master“).

FOXCATCHER

2. MIA MADRE di Nanni Moretti

Una riflessione profondissima sull’autenticità: sul bisogno di una finzione narrativa che sia aderente anzitutto all’autenticità, piuttosto e prima ancora che alla “realtà”. Piuttosto che limitarsi a denunciare un disorientamento, l’ultimo film di Moretti vuole scuoterci dall’opacità, stimolare la lucidità. Farci dismettere le maschere, disarmare la finzione; recuperare – appunto – l’autenticità. “Mia madre” è il capolavoro del Moretti post-Apicella, superiore a “La stanza del figlio” (e c’entra, naturalmente, l’autenticità del dato biografico). Vedi, per approfondimenti, la recensione per Ondacinema (link dal titolo).

Mia madre

1.INSIDE OUT di P. Docter, R. del Carmen

E’ il grande capolavoro della Pixar. Superiore a tutti quanti i lungometraggi della casa per profondità, ricchezza, e armonia di resa: superiore anche al miliare “Toy Story” (che gli è più importante esclusivamente per ragioni storiche e tecniche). “Inside Out” è compatto e senza cali: ad esempio, la prima parte di “Wall E” e l’inizio di “Up” sono memorabili, ma entrambi i film faticano ad arrivare alla fine mantenendosi a quei livelli. “Inside Out“, invece, mentre procede cresce. E, come scrive LongTake nella sua bella scheda, “il messaggio finale, che insegna come la Gioia non possa esistere senza la Tristezza, è di commovente, vibrante verità. Un’esperienza esistenziale, più che cinematografica, assolutamente imperdibile. Una tappa nella storia del cinema, d’animazione e non”.

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14 grandi film

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21. CITIZENFOUR di Laura Poitras

Il film che ha strameritato l’Oscar per il miglior documentario. Efficace a riguardo la sintesi di Giancarlo Usai: “ricostruisce, con minuziosità e senza mai rinunciare a una narrazione avvincente da grande schermo, lo scandalo Nsa e la vicenda umana e professionale di Edward Snowden. Un documentario che è prima di tutto un reportage dettagliato, certo, ma che ha il piglio e il ritmo di un vero e proprio thriller. La bravura della Poitras sta proprio in questo saper raccontare eventi reali, senza mai renderli artefatti, eppure tenendo sempre alta la tensione in chi guarda”. Aggiungo: un film di importanza enorme, come documento in presa diretta di una vicenda che deve essere paradigma dello stato delle cose per quanto riguarda la limitazione delle libertà individuali dopo l’11 settembre.

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20. KREUZWEG – LE STAZIONI DELLA FEDE di Dietrich Brüggemann

Un’opera estrema. Una di quelle che basta un minimo spostamento della propria prospettiva per ritenerla in malafede o, viceversa, assolutamente onesta. Propendo decisamente per la seconda interpretazione. Sarebbe scorretto interpretare il film come un pretestuoso atto d’accusa verso la religione. Invece si tratta di un’accusa perentoria dell’ottusità disumana di chi ha bisogno di aggrapparsi al dogma e al proprio esclusivo settarismo pur di mantenere un volto e riconoscersi allo specchio. Non è un discorso di fede, quanto di identità. Declinato con una messa in scena composta di piani sequenza glaciali, con uno sguardo impietoso, asciutto, ma colmo di intransigenza e, al contempo, persino di ironia.

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19. WHILE WE’RE YOUNG (“GIOVANI SI DIVENTA”) di Noah Baumbach

Il regista di Brooklyn realizza il suo film più riuscito sul tema del conflitto generazionale, plasmando al solito con agile duttilità personaggi in bilico fra speranza e disillusione, ambizione e inettitudine, nei cui ritratti è maestro. Percepiamo in Baumbach un’eco rohmeriana per la capacità di mantenere un’ambiguità di fondo che lascia allo spettatore la libertà di stabilire quanto siano più o meno avvilenti, tirate le somme, i ritratti di queste anime in preda alla smania di realizzarsi, di cui la vanità irresistibile di New York è combustibile principale.

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18. LA LEGGE DEL MERCATO di Stéphane Brizé

Questo grande film ha tre assi nella manica, uno dei quali è la superba interpretazione di Lindon (premiata a Cannes). Gli altri due sono l’intreccio – che non vale per le implicazioni socio-economiche, quanto per quelle morali (siamo dalle parti dei Dardenne, o anche di un diabolico episodio del “Decalogo” di Kieslowski) – e una messa in scena inventiva, perpendicolare (Lindon recita quasi sempre di profilo). Quando è frontale, i personaggi sono schiacciati insieme ai loro destini. Fino all’ultima scena dove, forse…

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17. BIRDMAN di Alejandro González Iñárritu

Hollywood ha ringraziato questo make up del supereroe sulle sponde dell’Hudson. Il teatro “colto” di Broadway rappresenta l’illusione intellettuale di New York di essere affrancata dalla volgarità da blockbuster essenza dell’american dream al di là delle sponde dell’Hudson. Si sa: gli USA detestano i newyorkesi, considerandoli snob e altezzosi, mentre i miti e i sogni degli statunitensi coincidono con quelli che da sempre fabbrica Hollywood. “Birdman” non attacca più di tanto il mito di Hollywood (anzi, come dimostrail finale, lo fa beffardamente trionfare): ma questo non è un limite, anzi rende fertile e stimolante un’operazione genialmente ironica almeno quanto è ambiziosa nella (senza dubbio strepitosa) messa in scena.

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16. YOUTH – LA GIOVINEZZA di Paolo Sorrentino

L’accostamento a “Birdman” non è casuale: si tratta di due gioie per gli occhi, per quanto molto autocompiaciute. E anche se il film di Sorrentino non punta al tour de force come prova di regia, per entrambi i film il narcisismo degli autori costituisce uno stesso identico limite. Tuttavia, Sorrentino è stato gravemente frainteso in Italia. Questo è uno dei suoi lavori più complessi e maturi (sì: più maturo de “La grande bellezza”). Mi pare davvero che in pochissimi, se mai qualcuno, abbiano evitato di soffermarsi sui vezzi e le stranezze del consorzio umano descritto dal regista napoletano, per dare piuttosto peso adeguato al cuore del racconto: la descrizione di due opposti modi di invecchiare da parte di due artisti. Il primo (Keitel) centrato sulla vanità e sul narcisismo, l’altro, invece, che rimane uomo prima che artista. E il finale, lungi dall’essere un tornare sui propri passi, è invece il magnifico approdo di un doloroso e intimo percorso che ha portato il personaggio interpretato da Caine a comprendere che, malgrado tutto, per vivere è necessario che anche lo spettacolo vada avanti.

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15. NON ESSERE CATTIVO di Claudio Caligari

Per come la vedo io, gli eccellenti riscontri di critica è più che probabile derivino anche dall’esser tutti un po’ influenzati dalla sorte sfortunata di Claudio Caligari (prima ancora che come uomo come cineasta, s’intende). Ma questo suo postumo finire sotto i riflettori ci ha regalato anche l’opportunità di rivalutare – nel suo film senz’altro più maturo, se non più importante – la specialità di uno sguardo altro, diverso da tutto il panorama italiano che lo circonda: uno sguardo appassionato, privo di vezzi e privo di orpelli, che è anzitutto uno sguardo profondamente umano, colmo di pietas e carico di pathos.

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14. TURNER di Mike Leigh

Il ritratto di un uomo che cercava l’assoluto nella luce e nella natura indomabile, solitario per vocazione. Un ritratto che non sarebbe completo se privo del fondamentale contrappunto fornito dallo sguardo vigile, anche se apparentemente inconsapevole e ottuso, di un’umile serva. Leigh nobilita straordinariamente questa figura: a lei, non per nulla, dedica l’ultima inquadratura. Come a Mary in “Another Year”. A Leigh sono sempre stati maggiormente a cuore i più umili. E forse è in lei che occorre scorgere la protagonista nascosta di “Turner”, l’elefante africano travolto dalla tempesta di neve, senza il quale non sospetteresti l’esercito di Annibale. Vedi recensione su Ondacinema (link dal titolo).

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13. INHERENT VICE (“VIZIO DI FORMA”) di P.T. Anderson 

Dopo due capolavori immensi, P.T. Anderson ha fatto un film che conferma le doti e la versatilità eccezionale di quello che è il più grande regista statunitense della sua generazione. A partire da “There will be blood” (“Il petroliere”) Anderson ha iniziato una rilettura dell’evoluzione degli Stati Uniti secondo una prospettiva in cui paiono centrali i rapporti di potere fondati sulla persuasione e sul dominio psicologico. Gli ultimi tre film fotografano tre tappe successive. “Il petroliere” è il contro-racconto dell’espansione territoriale e capitalista fondata sul mito del self-made man; “The master” si tuffa nei lati oscuri dell’espansione economica degli anni ’50. “Inherent vice” punta a svelare il vizio intrinseco della controcultura, all’alba del riflusso (siamo nel 1970), confrontandosi con i segnali della frantumazione dell’ultimo grande sogno americano, quello utopico dei sixties. Qui, un approfondimento sugli ultimi tre lungometraggi di Anderson. 

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12. VULCANO – IXCANUL di Jayro Bustamante 

Vulcano – Ixcanul”, concentrato sulla marginalità dell’etnia maya nel Guatemala, è uno splendido esempio di come possa farsi grande arte con uno sguardo aderente al reale, anche se scevro da ogni logica documentaristica. Bustamante cala una storia paradigmatica e archetipica di contrasto fra comunità e individuo, eviscerando tutte le contraddizioni fra l’importanza della libertà individuale e quella della salvaguardia delle comunità locali, fra modernità e tradizione; in un amalgama fra natura e civiltà, che travalica la denuncia. Un’opera insieme visionaria e realista, splendida negli aspetti stilistici quanto fondamentale per quelli socioculturali. Se lo colloco così in alto è anche per premiare una cinematografia “marginale”, di un’area cinematograficamente parlando in grande fermento (l’America latina); e anche la coraggiosa distribuzione italiana.

ixcanul

11. PER AMOR VOSTRO di Giuseppe M. Gaudino

Anna è donna, donna del Sud, madre. Il personaggio è valso a Valeria Golino il premio per la miglior interpretazione a Venezia. Quella di Per amor vostro, film materico, imbevuto di Napoli, del suo ventre, del suo sottosuolo, è la storia di un’inaspettata redenzione da parte di una madre la cui forza è l’amore felicemente istintivo per i figli. Per amor loro, il suo bisogno di fuga si concretizza in un riscatto civile e morale, che è anzitutto il riscatto della donna sul maschio – che sia fratello, marito o amante. Spesso, non a caso, strozzino. Vedi recensione su Cineforum (link dal titolo).

Foto di scena del film

10. EVERY THING WILL BE FINE (“RITORNO ALLA VITA”) di Wim Wenders

Il film stilisticamente più innovativo dell’anno (anche se il soggetto non è altrettanto clamoroso), è questo secondo esperimento di Wenders con il 3D, dopo il clamoroso documentario “Pina”. Wenders apre il 3D a un dialogo con la dissolvenza, le sovrimpressioni, la fotografia, i riflessi, i riquadri nel quadro, e naturalmente con la profondità di campo. Particolarmente insistito, il ricorso all’uso dello zoom avanti/carrello indietro – come in “Vertigo” – che, in 3D, contribuisce al disorientamento emotivo su cui tutto il film è fondato. A parte l’uso disarticolante ed estremo (e provocatorio) di Godard, questo è il film in cui l’uso del 3D è il più bello che sia mai stato fatto sinora. Vedi recensione su Cineforum (link dal titolo).

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9. THE WALK di Robert Zemeckis

3D di grande impatto, che esalta una visione cui è straordinariamente funzionale. Ma non è questo il merito di “The walk”, che – sin dalla sua strutturazione narrativa e scenografica – è soprattutto un bellissimo inno al Cinema. Alla sua capacità di farci sognare e di lasciare che i sogni siano immortali. Le persone invecchiano; tutti un giorno moriremo. I miti crollano, come le torri. Ma l’accesso ai miti è eterno. L’ultima scena di “The walk” è memorabile, e dice tutto a riguardo. La libertà di sognare e la pervicacia di seguire i propri sogni dona valore alla vita (alla vita, non alla morte).

Philippe Petite (Joseph Gordon-Levitt) in TriStar Pictures' THE WALK.

8. TIMBUKTU di Abderrahmane Sissako

Sissako è regista enorme, e la messa in scena di “Timbuktu” è pazzesca. La scelta dei campi, dai primi piani ai campi lunghissimi, lascia senza parole. Niente di mai visto, ma davvero da togliersi il cappello. Dopo averlo rivisto, è cresciuto nella mia già alta considerazione. Ed è davvero tanto importante un’opera che oggi ci prova a raccontare un fenomeno complesso come quello lì, che le tragedie più terribili li crea in posti come il Mali, non tanto a Parigi (per quanto grave sia quanto accaduto).

Timbuktu

 

2015, 14 film notevoli

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Il 7 e mezzo (il voto, non il gioco a carte) è la mia croce e delizia. Se lo beccano film in ogni caso notevoli: ma di due specie. Grandi film mancati (anche capolavori mancati, a volte), oppure film più che buoni. ‘Notevoli’ appunto. Per i primi il 7,5 è una specie di declassamento; per i secondi, un premio.

In questi 14 film ci sono 7 grandi film mancati e 7 film più che buoni. I più che buoni sono: “La isla minima”, “Cloro”, “She’s funny that way”, “Il racconto dei racconti”, “45 anni”, “Ex machina” e “Babadook”. Gli altri sono: “National Gallery”, “Il ponte delle spie”, “Blackhat”, “The lobster”, “E’ arrivata mia figlia”, “Forza maggiore” e “Louisiana – The other side”. Qui sotto troverete spiegato il perché, in riferimento a ciascuno.

Per gioco li metto in classifica, però mischiati. Eccoli, dalla 35° posizione alla 22° della classifica dell’anno:

35. LA ISLA MINIMA di Alberto Rodriguez

Nella Spagna del 1980, appena (non) uscita dal franchismo, alle foci del Guadalquivir, tra labirintiche paludi, si consuma il confronto tra due investigatori in cui, come in un chiasmo, si incrociano freddezza e calore umano, metodi ortodossi e più disinvolti, aspirazioni democratiche e nostalgie per la dittatura. Un incrocio storico e umano fascinoso, che sconta un eccesso di rimandi al già visto americano (ad es. “True Detective”). Incetta di premi Goya. Faccio un’eccezione alla regola del blog, dove linko solo recensioni mie: quella di Antonio Pettierre su Ondacinema merita una letta.

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34. CLORO di Lamberto Sanfelice.

Un notevole esordio italiano, di cui parlo nella recensione per Ondacinema (vedi link dal titolo; qui invece la mia intervista con il regista).

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33. NATIONAL GALLERY di Frederick Wiseman

…Troppo in basso? Si tratta infatti di un documentario di Wiseman: e i documentari di Wiseman raggiungono sistematicamente l’eccellenza. Forse, rispetto ad altri documentari in cui Wiseman esplora una singola istituzione e ce ne svela vita e funzionamento, questo “National Gallery” è leggermente meno incisivo e più ripetitivo (nelle sue 3 ore di durata). A me ha colpito più di tutto il confronto tra i volti dei dipinti e i volti dei visitatori. Un insistito campo/controcampo fra l’arte e i suoi osservatori immortalati da Wiseman, che è l’aspetto più suggestivo di un film che non offre, per altri versi, altrettanti spunti di grande interesse quanti, ad esempio, “At Berkeley” (4 ore e non sentirle).

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32. SHE’S FUNNY THAT WAY (TUTTO PUO’ACCADERE A BROADWAYdi Peter Bogdanovich

Il ritorno dietro la macchina da presa da parte del grande Bogdanovich è un’irresistibile commedia fitta di metatesti, tipicamente postmoderna, ricca di grazia, inventiva, trovate di sceneggiatura e di regia. Un divertimento (da godere assolutamente in lingua originale) di alto livello, che va contestualizzato e preso per quello che è: un divertissement di effervescente vitalità, delizioso e mai lezioso.

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31. IL PONTE DELLE SPIE di Steven Spielberg

Troppo in basso per tutti, lo so. Eppure l’ho apprezzato (e spero che il mio apprezzamento trapeli, nella recensione). Ma questo classicismo luminoso è – come cerco di spiegare nell’ultimo paragrafo – un po’ privo di ombre. Mi è mancato di percepire la forza degli antagonisti, mi è mancato il senso del conflitto. Film di gran classe: ma didascalico, programmatico, prevedibile. Una sceneggiatura oliata, cristallina, che si imprime nella memoria eppure non è memorabile. – Il Grande Cinema DEVE innovare. E il classicismo americano, da sempre e non solo nei suoi epigoni, ha un vizio intrinseco: inibisce lo sguardo dell’autore, che sarebbe il solo capace di innovare, facendo di un film qualcosa di autenticamente Grande.

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30. BLACKHAT di Michael Mann

Al solito grandissima prova di regia di uno dei maggiori cineasti americani viventi. Assolutamente ‘sul pezzo’ dell’attualità, capace di penetrare letteralmente dentro i meandri impalpabili delle nuove tecnologie, sviscerandone le minacce che da evanescenti vengono riportate a forza alla loro dimensione concreta, alla fisicità dello scontro – all’arma bianca, addirittura. Al contrario che nel film di Spielberg, qui è tutto incerto e imprevedibile, sino alla fine: i conflitti ci sono eccome, e sono adrenalinici. Manca, tuttavia, la forza degli antagonisti. E, se mi è permesso, anche un protagonista di spessore. Rispetto ai titoli cardine di Michael Mann, anche i più recenti come lo straordinario “Miami Vice“, questo “Blackhat” ha qualcosa in meno. Ci sono momenti totali, dove pulsa la vita (tutta la sezione di Hong Kong è straordinaria): predomina però il sapore freddo del metallo: device, pallottole o lame che siano.

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29. IL RACCONTO DEI RACCONTI di Matteo Garrone

Il più grande autore italiano della sua generazione si cimenta con coraggio in territori decisamente poco consueti per il cinema italiano. Ne esce fuori un prodotto affascinante da parte di un regista ossessionato dal corpo e dal desiderio. In pochi si sono soffermati sul filo segreto che collega nella visione di Garrone i tre racconti scelti dalla raccolta di Giambattista Basile: la vanagloria e l’amor di sé che prevalica persino l’amore filiale. Manca l’amalgama fra le parti? Garrone non ha voluto ambire all’ennesimo capolavoro: il fatto che “Il racconto dei racconti” sia un’opera che apre in tante direzioni, che tenta tante strade, che accavalla storie e ritmi in modo disorganico, rende l’operazione più meticcia e suggestiva.

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28. THE LOBSTER di Yorgos Lanthimos

Lanthimos, talento di punta della nuova onda greca, autore di un film di culto come “Kynodontas”, per la prima volta alle prese con una produzione internazionale, fa un cinema che ha pochissimi eguali nel panorama mondiale. Rifugge dal realismo per inseguire grandi Allegorie, con uno spirito molto affine a Saramago (devo l’intuizione al mio amico Giuseppe). E le sue sono allegorie assolutamente politiche, ben prima di essere antropologiche. “The lobster” è un film a due facce. Diviso in due parti come si spacca una mela. La prima mostra il totalitarismo (non istituzionale, ma – e questo è il bello – quello sociale, in cui ciascun individuo sceglie consapevolmente di rimettere la propria libertà in mano altrui). La seconda mostra come la rivoluzione diventi a sua volta totalitaria. Niente di nuovo: lo insegna la Storia. Non c’è via di fuga. Di nuovo c’è il modo di esprimersi di Lanthimos, che sceglie di volare alto come Icaro, e si regge in volo maestosamente nella prima parte, per accartocciarsi e rischiare più volte di bruciarsi nella seconda: che è la parte più affascinante, più rischiosa, con molti momenti ancora eccezionali (vedi foto sotto), ma anche un avvitamento progressivo verso un finale, più che allegorico, anacoluto.

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27. QUE HORAS ELA VOLTA? (“E’ arrivata mia figlia”) di Anna Muylaert

Film superlativo anzitutto a livello di messa in scena, clamorosa nel fare di elementi architettonici il principale correlativo oggettivo che separa le due classi sociali – ricchi e poveri – che compongono le società latinoamericane, e che non fatichiamo a immaginare saranno le uniche due classi, molto presto, anche da noi. Ma se il soggetto del film è di importanza capitale (anche per come riesce a penetrare sottilmente dentro a un conflitto generazionale trasversale a quello sociale), a decretarne la grandezza è la maestria registica che con l’uso di mascherini diegetici imprigiona e divide i personaggi dimostrando di saper attualizzare splendidamente la lezione di maestri come Mizoguchi. Peccato che il film si perda un poco in un finale eccessivamente conciliante e consolatorio. 

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26. 45 ANNI di Andrew Haigh

La grandezza di questo film inglese che è stato un caso cinematografico si regge su due pilastri solidi come rocce: un’interpretazione tra le maggiori di un’attrice immensa come poche altre (viventi e non), e una resa delicatissima della diversa sensibilità maschile e femminile, di fronte al diverso peso affidato a una memoria lontana mezzo secolo, ma intatta e viva come una mummia conservata nel ghiaccio. Non ci sono colpe: è una questione di identità di coppia, sottoposta a sommovimenti tellurici silenziosi (non necessariamente fratture) in grado di mettere a repentaglio il senso di sé, di ciò che si è e di ciò che si è stati. Memorabile, davvero, la scena delle diapositive.

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25. FORZA MAGGIORE di Ruben Östlund

Ancora un film sulla diversa sensibilità maschile e femminile. E l’accostamento con il film di Haigh non è casuale. Ancora un evento dal significato piccolo per l’uomo, immenso per la donna. Lo scarto è ancora più sottile che in “45 anni“, la frattura che si apre più dolorosa, la crisi cui è sottoposta l’identità dell’uomo-maschio ancora più lacerante. Ed Östlund possiede un senso rigorosissimo e calibratissimo della messa in scena, lontano dallo stile sfumato di Haigh. Peccato che il film perda potenza approdando a un inceppamento finale posticcio, che lascia una sensazione di irrisolto.

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24. LOUISIANA – THE OTHER SIDE di Roberto Minervini

Ibrido fecondo fra realtà e finzione: coraggioso, necessario e difficilissimo. Merita applausi a scena aperta il nuovo film di Roberto Minervini, marchigiano d’origine e statunitense d’adozione, che vive a contatto intimo per mesi con il più marginale e invisibile profondo sud degli Stati Uniti. Ne esce fuori un film imperfetto, perché i rischi erano tantissimi, e non tutte le trappole sono superate. Alcuni passaggi ricostruiti e una certa programmaticità: vedi mia recensione su Cineforum (link dal titolo). Si tratta di limiti marginali in un film che è un pugno nello stomaco importante, oggi, quanto l’esordio di Claudio Caligari di 30 anni fa. Semmai, ci fa rimpiangere ancor di più il talento di Caligari, lasciandoci capire quanto fosse stato miliare “Amore tossico“.

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23. EX MACHINA di Alex Garland

Gli esordi alla regia di uno sceneggiatore sono sempre un rischio. Garland se la cava alla grande con un film eccezionale. Mascherato da fantascienza distopica, il valore di “Ex machina” sta tutto nel discorso di genere che sviscera benissimo Pier Maria Bocchi.

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22. BABADOOK di Jennifer Kent

Horror australiano, fitto di rimandi psicanalitici messi splendidamente in immagini e simboli (basti, su tutti, quella frattura sulla parete della cucina…), è non a caso di una regista donna. Jennifer Kent dimostra come sia ancora possibile prendere un soggetto archetipico come il babau e fare un’opera memorabile, destinata a imprimersi con forza nel genere e non solo. Il rapporto tra madre (sola) e bambino, e tutto (o quasi) ciò che esso può contenere, non era ancora stato tradotto così bene in forma di fiaba contemporanea di paura.

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12 buoni film

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DOCUMENTARI PREGIATI

GENITORI-ALBERTO-FASULO-U4474Se “Genitori” di Alberto Fasulo è un film minore, lo è nel senso migliore del termine: l’autore ha cioè sentito così tanto l’importanza del tema che affronta (l’esser genitori e parenti di disabili), che rispetto alle sue precedenti contaminazioni con la realtà (“Tir“) aggiunge pochissimo di suo, si fa piccolo piccolo e ci mette di fronte a volti e parole, universi e abissi. Si esce scossi e più ricchi. Un lavoro giusto, nobile, più importante del Cinema.

Going Clear – Scientology e la prigione della fede” di A. Gibney è un documentario buono (e soprattutto estremamente interessante), che fa quel che deve fare in modo pulito e non tendenzioso. Non ha forse la qualità di Errol Morris, né ambizioni alla Wiseman, ed è lontano dal sarcasmo di Moore: ma Gibney ha un suo stile, magari meno personale, meno cinematograficamente rilevante. Poco male; per aver un buon documentario conta anzitutto il soggetto, non l’autore.

LA MEGLIO FRANCIA

diamante_nero_04_jpg_363x200_crop_q85Non perché superare la nouvelle vague sia per forza una necessità (Céline Sciamma nel magnifico “Tomboy” echeggiava i 400 colpi), ma perché, dopo aver parlato dei “soliti” francesi nel limbo, ci tengo a dire subito che a me il cinema francese piace: specie quando non racconta i salotti parigini (nel limbo, ci è finito Audiard che ha vinto la Palma d’oro con il suo film recente meno riuscito; ma s’intenda che “Dheepan” è un discreto 6,5). “Diamante nero” (“Bande de filles“) e “The fighters – addestramento di vita” (“Les combattants“) di Thomas Cailley: un accostamento che mi piace: i film hanno una sotterranea assonanza, una vitalità, una freschezza che li rende entrambi interessanti nel raccontare di fughe, di orgogli, di sbagli, di aspettative frustrate, adottando prospettive in entrambi i casi inusuali e non retoriche. Dalla Sciamma mi attendo un salto di qualità che, però, in “Diamante nero” (o meglio “Bande de filles“) non ho trovato.

GRANDI DONNE, GRANDI ATTRICI

Still AliceA fronte di una regia al servizio della storia (ma con una discreta idea di fondo centrata sulla sfocatura, e alcuni momenti particolarmente efficaci – su tutti la sequenza dei gusti di gelato), “Still Alice” è sorretto dall’interpretazione magnifica di J. Moore, al suo meglio per raffinatezza e immedesimazione. Un dramma asciutto che sa evitare la retorica: di livello superiore ad analoghe confezioni recenti come “Dallas Buyers Club” (ci avviciniamo a un “Philadelphia”). E a proposito di J. Demme: in attesa di conoscere il destino del capolavoro inedito del 2013 ispirato al “Costruttore Solness” di Ibsen, Demme ci ha regalato, con “Dove eravamo rimasti“, un sincero e commovente omaggio agli anni ’80 e un bel ritratto sfaccettato di una donna indipendente, sofferente ma indomita, affidato a una M. Streep al solito eccezionale per mimesi e trasformismo. Una commedia dal cuore di dramma, che senza replicare i risultati raggiunti dallo straordinario “Rachel sta per sposarsi” fa bene al cuore. Arriva al finale con un eccesso di semplificazione e di buoni sentimenti, è vero. Un cantoncino nella memoria se lo ritaglia.

RETROMANIA

star-wars-7-force-awakens-images-kylo-renIntendiamoci: le operazioni di J.J. Abrams e di George Miller sono quanto di più diverso tra loro. Ma a conti fatti hanno lo stesso peso. Con “Mad Max – Fury Road” Miller rivela una coerenza, una capacità di riattualizzare una SUA creatura, di mantenersi oltre che “fresco” anche al passo con i tempi, che ha dell’invidiabile. J.J. Abrams lavora su terreno altrui, sul pericoloso crinale fra devozione e irriverenza, logiche soverchianti di mercato e amore personale. Non mi allineo alla schiera di entusiasti dell’operazione di Miller, che pure è stato in grado di fare un film elettrizzante (la componente femminile è insieme il punto di forza e il limite del film: è quello che mi ha preso di più eppure la percepisco un po’ posticcia). Non sono un esegeta di Star Wars e proprio per questo apprezzo la capacità di Abrams di calcare il piede sul terreno dell’ironia, di fare del suo “Star Wars 7 – Il risveglio della forza” uno pseudo-remake che annulla la trilogia prequel con tutti i suoi vizi, e torna a celebrare “Star Wars” (il primo film) per quello che era essenzialmente. Non epos, ma frullato postmoderno (e intrinsecamente parodistico) di vari epos. In grado, oltre che di imporsi nell’immaginario di massa, anche di porsi come perfetta fotografia dell’immaginario di massa a cavallo fra XX e XXI secolo: miti fondativi metabolizzati, frullati, livellati e resi inoffensivi da un’implicita ironia di fondo.

IN ITALIA, NUOVE STRADE

hungry_heartsSu “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo rimando a una mia ‘pillola’ (v. link). Su “Suburra” di Stefano Sollima dico semplicemente che, lungi dall’essere un film di grande valore ‘artistico’, il suo valore va cercato proprio nel non tentare strade autoriali in un cinema come quello italiano, in cui il talento visivo viene spesso sacrificato in nome della sudditanza a un concetto di autorialità, di cui non sono in tanti a saper reggere il peso piuttosto bene come S. Costanzo. Sollima non ha ambizioni ‘autoriali’ ma solo tematiche; eccede in tutto, pecca più volte per ingenuità e, disinteressandosi palesemente della verosimiglianza, va fuori giri nella seconda parte. Gira insomma un film imperfetto: ma non perde mai il senso della messa in scena, ponendosi sulla scia di quei De Palma e Scorsese che in Italia non abbiamo mai avuto. Evviva.

PRELIBATE PROVOCAZIONI

eisensteinEisenstein in Messico” possiede un ritmo e una scanzonatezza che erano sconosciuti agli ultimi film di Greenaway: autore dell’eccesso per antonomasia, ho apprezzato parecchio il modo in cui si prende gioco, stavolta, di un maestro del cinema. Il gioco gli torna a funzionare bene: merito di un’ispirazione meno intellettualistica, e di una leggerezza che non sempre è nelle sue corde. All’opposto, il tono di “Calvario” di J.M. McDonagh è plumbeo: il suo ritratto di un’umanità sull’orlo dell’apocalisse sulle coste irlandesi è provocatorio e ha il limite dell’autocompiacimento, ma si salva – ed è parecchio interessante – perché mantiene fino in fondo un’intransigenza morale in straniante contrasto con la superficie di un film a più facce.

2015, flop piccoli e grandi

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DELUSIONI COCENTI

Sangue del mio sangue” di Marco Bellocchio. Adoro Bellocchio: e proprio per questo sono rimasto tanto deluso. Questo film ha tutte le caratteristiche di un’incipiente presunzione senile. Le intuizioni sono buone, anzi memorabili. La resa, a tratti, imbarazzante. Dalla scrittura dei dialoghi (a partire proprio dall’italiano moderno nella prima parte del film) alla direzione degli attori. Triste.

Taxi Teheran” di Jafar Panhai è il segno sconfortante che restare intrappolati a Teheran potendo far film solo con un cellulare o poco più, non premia sulla lunga distanza (vedi invece il bel “This is not a film“). Panhai gira la metropoli fingendosi tassista: ma non riesce a fornire dell’Iran di oggi che un pallido ritratto, rimanendo lontano dal magnifico “Dieci” di Kiarostami. I dialoghi con una bambina sulla libertà sono scolastici. C’è, forse, troppo Panhai, in questo film che ha vinto il festival di Berlino.

FLOP PICCOLI E INNOCUI

Jupiter” dei Wachowski e “Crimson Peak” di Guillermo Del Toro sono due stanchi film di genere. Il primo è un pasticcio, per quanto divertente; quello di Del Toro, che ha una confezione ricchissima, ammicca a robe come “I vivi e i morti” di Corman, ma è dominato dalla noia. Un esercizio di stile fine a se stesso, senz’anima.

Non sono riuscito a trovare alcuna virtù neppure stilistica, in “A bigger splash” di Guadagnino, un film addosso al quale comunque non me la sento di sparare come tanti. E’ talmente eccentrico da poter pure piacere per questo: io l’ho trovato risaputo, senza spessore, alla fin fine indifendibile quanto il personaggio di Guzzanti e la scelta di Guzzanti.

Faber in Sardegna“, mediometraggio documentario su De André di Gianfranco Cabiddu, ha trovato una distribuzione cinematografica come ‘evento’, e per il mio grande amore di Fabrizio l’ho pure recensito: ma è buono per una ottima seconda serata in tv.

LA MEDIOCRITA’

Latin Lover” di Cristina Comencini, “Into the Woods” di Rob Marshall: Non ti curar di lor ma guarda e passa (è stato sufficiente scriverne una recensione).

Da fan senza ritegno dello Studio Ghibli, sono corso pieno di speranze a vedere “Il regno dei sogni e della follia“. Visitare lo Studio è stata l’unica cosa interessante: diversi momenti sono piacevoli esperienze, degne però degli extra di un home video, non di un documentario che avrebbe dovuto invece essere di ben altro spessore, all’altezza di ciò che celebra. Invece si allunga e si stiracchia, tra una visita a casa di Hayao e interviste troppo inconsistenti, finendo per girare a vuoto. …E soprattutto: dov’è Isao?

Il premio del pubblico al festival di Tokyo mi ha spinto a recuperare “Se Dio vuole“, esordio alla regia di Edoardo Falcone; tuttavia, per quanto si astenga dalla volgarità media delle commediole italiote (non sempre scurrili, ma comunque volgari), resta un filmetto “carino” e mediocre. Il curriculum da sceneggiatore di Falcone avrebbe dovuto mettermi in guardia.

LE MOLESTIE

Ha creato un polverone critico come pochi, giusto un anno fa, a capodanno del 2015, “American Sniper” di Clint Eastwood: non ci torno sopra, rimando alla recensione.

A molti è piaciuto, io invece ho trovato irritante “The Tribe” di Myroslav Slaboshpytskkiy. Buona l’idea di metterci nella condizione di essere noi i disabili, senza sottotitoli e senza capire un accidenti. Quanto viene narrato è deliberatamente, pretestuosamente provocatorio e disturbante. E inaccettabile dal punto di vista etico-estetico: perché si ricorre ad autentici disabili per mettere in scena una storia verosimile, che forse rispecchia pure la realtà, ma che autentica non è.

SCARSI O INDECENTI

Spectre” di Sam Mendes è un triplo tuffo carpiato in un pozzo di nulla, dopo il brillante exploit di “Skyfall“. “The visit” di M. Night Shyamalan ha i suoi ammiratori. Io, per quanto abbia cercato di apprezzarne ironia e metatesti, ho provato guardandolo la non proprio piacevole sensazione vissuta dal piccolo protagonista, quando il ‘nonno’ gli schiaffa sul volto il pannolone per adulti usato.

Con “Nessuno si salva da solo” Sergio Castellitto tocca il fondo della sua carriera di regista. E per chiudere in bellezza, ho voluto farmi del male con “The green inferno” di Eli Roth, non so come sperando di trovarvi qualcosa all’altezza di “Cannibal Holocaust“. Invece ho trovato persino poco torture porn, ma tanta, tanta noia.

Storia dell’ultimo crisantemo, K. Mizoguchi 1939

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Capolavoro risalente al periodo meno noto di Mizoguchi, condensa la dialettica fra tradizione e innovazione degli anni 30 del maestro nipponico, e testimonia la sua grande influenza sul cinema moderno di cui precorre tematiche e stilemi.

“Storia dell’ultimo crisantemo” (“Zangiku Monogatari”) precede di almeno un decennio il periodo d’oro dei grandi film mizoguchiani degli anni 50, ritenuti, generalmente, i suoi capolavori (“Vita di O-Haru, donna galante”, “I racconti della luna pallida d’agosto, “L’intendente Sanshō”, “Gli amanti crocifissi”). Negli anni 30 il grande maestro nipponico aveva prodotto film di assoluto rilievo (come i primi due scritti con il fidato sceneggiatore Yoda Yoshikata, “Elegia di Osaka” e “Le sorelle di Gion”, entrambi del 1936). Ed esiste persino chi ritiene il Mizoguchi “pre-50” addirittura migliore, più autentico, più “giapponese” (qualunque cosa voglia dire).
Perché è importante, oggi, recuperare un film di Mizoguchi del 1939? Dipende, naturalmente, dal punto di vista: se si è interessati al cinema giapponese, la risposta è scontata. Ma se non è il cinema giapponese a interessarci specificamente, esistono lo stesso valide ragioni per ritenere il Mizoguchi di “Zangiku Monogatari” degno di assoluta considerazione. Se avete voglia e pazienza, probabilmente arriverete alla fine di questa lettura con meno certezze riguardo alla prospettiva più abituale con cui si tende a guardare all’intera storia del cinema.

Continua a leggere su Ondacinema.

Festa del cinema di Roma 2015: dieci film

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Ha poco senso fare un bilancio di un festival che, cambiando quasi ogni anno struttura o direzione artistica, è ancora ben lontano dall’acquisire una sua fisionomia. Lasciamo le polemiche ad altri: pur con tutti i suoi limiti, la rassegna romana è stata anche quest’anno un’occasione per vedere qualche film interessante, in anteprima italiana o europea.

Su CineforumWeb una sintesi di 5 titoli significativi fra quanti visti (“The whispering star” di Sion Sono; “Closet Monster” di Stephen Dunn; “Eva no duerme” di Pablo Aguero; “Truth” di James Vanderbilt; “Mistress America” di Noah Baumbach).

Altri film visti:

  • il magnifico “Carol” di Todd Haynes (già in concorso a Cannes).
  • Junun“, documentario di P.T. Anderson sulla realizzazione dell’album omonimo cui ha collaborato in India Jonny Greenwood.
  • Hitchcock/Truffaut“, convenzionale ma gustoso documentario sul celeberrimo libro-intervista dedicato da Truffaut al cinema di Hitchcock (sarà in sala in primavera).
  • Room“, di cui si parlerà molto, che aveva vinto a Toronto e mi ha commosso, con le sue sfumature di grande delicatezza a descrivere uno dei rapporti madre/figlio più intensi che ricordi. La commozione non è cercata in modi ricattatori, sicuramente non ruffiani. Il bambino protagonista, poi, è eccezionale.
  • Mustang“, film – turco – di una giovanissima esordiente, che racconta della difficoltà a diventare donne libere e felici nell’Anatolia di oggi. Il film che la Francia – più che mai globalizzante colonizzatrice cinematografica – ha scelto per essere rappresentata ai prossimi premi Oscar.

Qui potete leggere una cronaca della masterclass con Todd Haynes.

Un unico, grande rimpianto: aver perso “Office“, il musical 3D di Johnnie To. (Perso anche l’ultimo Gondry, di cui si è detto un gran bene. Ma spero di recuperarlo presto in sala).

La ricerca dell’identità e la potenza delle storie semplici. Incontro Con Todd Haynes

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Haynes_primo_pianoAlla X edizione della festa del cinema di Roma, il pubblico ha avuto l’occasione di partecipare a una masterclass del regista statunitense indipendente Todd Haynes (“Safe“, 1995; “Velvet Goldmine“, 1998; “Lontano dal paradiso“, 2002; “Io non sono qui“, 2007), in occasione della presentazione del suo ultimo film “Carol”, con Cate Blanchett e Rooney Mara.  Ne è emerso un ritratto pieno, ricco e sfaccettato di un autore che non si sottrae al parlare della propria poetica, anzi ama mettersi a nudo, contrariamente a molti colleghi.

Qui una sintesi di un confronto che ha spaziato da Antonioni a Fassbinder, da Douglas Sirk a David Lean. Su OndaCinema.

La distanza fra Tsukamoto e Cronenberg, alla luce di Jung (“Tokyo Fist”, 1995).

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La mia “pietra miliare” per OndaCinema, dedicata a “Tokyo Fist” di Shinya Tsukamoto, in cui provo a segnalare fra l’altro le distanze fra la poetica di Tsukamoto e quella del suo doppio canadese, David Cronenberg. E per farlo, chiamo in causa C.G. Jung.

TOKYO FIST di Shinya Tsukamoto.

Di seguito, un passaggio chiave:

“Cronenberg è da sempre pervicacemente nichilista: nei suoi film, i protagonisti tendono all’autodistruzione; il confronto con l’altro da sé (o con il proprio doppio, interiore o esteriore che sia) conduce all’annichilimento. Ciò con poche eccezioni, fra le quali rilevano “Scanners” (dove avviene una fusione simile a quella di “Tetsuo”), ‘A history of violence’, e per complessità tematica soprattutto “A Dangerous method“. Per Cronenberg, non c’è in genere mai una sintesi che dal confronto fra una tesi e la sua antitesi faccia scaturire un equilibrio: al contrario, il desiderio di fondersi con l’alterità in cui ci si specchia rende impossibile la stessa sopravvivenza. Trasposizione fedele del rapporto fra eros e thanatos descritto da Freud, il raggiungimento del massimo piacere in Cronenberg viene continuamente frustrato, in una tensione che, per pacificarsi, si abbandona alla pulsione di morte. I film di Tsukamoto sono impostati invece secondo un classico schema di tesi-antitesi-sintesi: e in questo, il cineasta giapponese è molto più ‘ottimista’ di Cronenberg”.

“2001: Odissea nello spazio”. Il film dei film.

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Dave-casco-primo-piano-2001Per OndaCinema, ho scritto una “pietra miliare” su quello che per me resta (e probabilmente resterà) il film più bello, importante, significativo sotto ogni punto di vista, che sia mai stato realizzato.

Alla chiave di lettura scelta (sintetizzata nella frase più sotto in corsivo), ho aggiunto un filo conduttore: uno spunto comparativo con l’opera di M.C. Escher che non mi pare fosse stato ancora rilevato (almeno non ho trovato fonti a riguardo, ma sarei lieto di essere smentito).

Pietra miliare dell’arte del XX secolo, l’Odissea di Stanley Kubrick fa sperimentare la sete di comprensione insieme all’impossibilità di superare i limiti della comprensione. Ai continui balzi in avanti si contrappone l’eterno ritorno della figura del cerchio. Un’opera che indaga entro i limiti del finito le possibilità dell’infinito.

Qui il testo, su Ondacinema.