Mese: dicembre 2015

12 buoni film

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DOCUMENTARI PREGIATI

GENITORI-ALBERTO-FASULO-U4474Se “Genitori” di Alberto Fasulo è un film minore, lo è nel senso migliore del termine: l’autore ha cioè sentito così tanto l’importanza del tema che affronta (l’esser genitori e parenti di disabili), che rispetto alle sue precedenti contaminazioni con la realtà (“Tir“) aggiunge pochissimo di suo, si fa piccolo piccolo e ci mette di fronte a volti e parole, universi e abissi. Si esce scossi e più ricchi. Un lavoro giusto, nobile, più importante del Cinema.

Going Clear – Scientology e la prigione della fede” di A. Gibney è un documentario buono (e soprattutto estremamente interessante), che fa quel che deve fare in modo pulito e non tendenzioso. Non ha forse la qualità di Errol Morris, né ambizioni alla Wiseman, ed è lontano dal sarcasmo di Moore: ma Gibney ha un suo stile, magari meno personale, meno cinematograficamente rilevante. Poco male; per aver un buon documentario conta anzitutto il soggetto, non l’autore.

LA MEGLIO FRANCIA

diamante_nero_04_jpg_363x200_crop_q85Non perché superare la nouvelle vague sia per forza una necessità (Céline Sciamma nel magnifico “Tomboy” echeggiava i 400 colpi), ma perché, dopo aver parlato dei “soliti” francesi nel limbo, ci tengo a dire subito che a me il cinema francese piace: specie quando non racconta i salotti parigini (nel limbo, ci è finito Audiard che ha vinto la Palma d’oro con il suo film recente meno riuscito; ma s’intenda che “Dheepan” è un discreto 6,5). “Diamante nero” (“Bande de filles“) e “The fighters – addestramento di vita” (“Les combattants“) di Thomas Cailley: un accostamento che mi piace: i film hanno una sotterranea assonanza, una vitalità, una freschezza che li rende entrambi interessanti nel raccontare di fughe, di orgogli, di sbagli, di aspettative frustrate, adottando prospettive in entrambi i casi inusuali e non retoriche. Dalla Sciamma mi attendo un salto di qualità che, però, in “Diamante nero” (o meglio “Bande de filles“) non ho trovato.

GRANDI DONNE, GRANDI ATTRICI

Still AliceA fronte di una regia al servizio della storia (ma con una discreta idea di fondo centrata sulla sfocatura, e alcuni momenti particolarmente efficaci – su tutti la sequenza dei gusti di gelato), “Still Alice” è sorretto dall’interpretazione magnifica di J. Moore, al suo meglio per raffinatezza e immedesimazione. Un dramma asciutto che sa evitare la retorica: di livello superiore ad analoghe confezioni recenti come “Dallas Buyers Club” (ci avviciniamo a un “Philadelphia”). E a proposito di J. Demme: in attesa di conoscere il destino del capolavoro inedito del 2013 ispirato al “Costruttore Solness” di Ibsen, Demme ci ha regalato, con “Dove eravamo rimasti“, un sincero e commovente omaggio agli anni ’80 e un bel ritratto sfaccettato di una donna indipendente, sofferente ma indomita, affidato a una M. Streep al solito eccezionale per mimesi e trasformismo. Una commedia dal cuore di dramma, che senza replicare i risultati raggiunti dallo straordinario “Rachel sta per sposarsi” fa bene al cuore. Arriva al finale con un eccesso di semplificazione e di buoni sentimenti, è vero. Un cantoncino nella memoria se lo ritaglia.

RETROMANIA

star-wars-7-force-awakens-images-kylo-renIntendiamoci: le operazioni di J.J. Abrams e di George Miller sono quanto di più diverso tra loro. Ma a conti fatti hanno lo stesso peso. Con “Mad Max – Fury Road” Miller rivela una coerenza, una capacità di riattualizzare una SUA creatura, di mantenersi oltre che “fresco” anche al passo con i tempi, che ha dell’invidiabile. J.J. Abrams lavora su terreno altrui, sul pericoloso crinale fra devozione e irriverenza, logiche soverchianti di mercato e amore personale. Non mi allineo alla schiera di entusiasti dell’operazione di Miller, che pure è stato in grado di fare un film elettrizzante (la componente femminile è insieme il punto di forza e il limite del film: è quello che mi ha preso di più eppure la percepisco un po’ posticcia). Non sono un esegeta di Star Wars e proprio per questo apprezzo la capacità di Abrams di calcare il piede sul terreno dell’ironia, di fare del suo “Star Wars 7 – Il risveglio della forza” uno pseudo-remake che annulla la trilogia prequel con tutti i suoi vizi, e torna a celebrare “Star Wars” (il primo film) per quello che era essenzialmente. Non epos, ma frullato postmoderno (e intrinsecamente parodistico) di vari epos. In grado, oltre che di imporsi nell’immaginario di massa, anche di porsi come perfetta fotografia dell’immaginario di massa a cavallo fra XX e XXI secolo: miti fondativi metabolizzati, frullati, livellati e resi inoffensivi da un’implicita ironia di fondo.

IN ITALIA, NUOVE STRADE

hungry_heartsSu “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo rimando a una mia ‘pillola’ (v. link). Su “Suburra” di Stefano Sollima dico semplicemente che, lungi dall’essere un film di grande valore ‘artistico’, il suo valore va cercato proprio nel non tentare strade autoriali in un cinema come quello italiano, in cui il talento visivo viene spesso sacrificato in nome della sudditanza a un concetto di autorialità, di cui non sono in tanti a saper reggere il peso piuttosto bene come S. Costanzo. Sollima non ha ambizioni ‘autoriali’ ma solo tematiche; eccede in tutto, pecca più volte per ingenuità e, disinteressandosi palesemente della verosimiglianza, va fuori giri nella seconda parte. Gira insomma un film imperfetto: ma non perde mai il senso della messa in scena, ponendosi sulla scia di quei De Palma e Scorsese che in Italia non abbiamo mai avuto. Evviva.

PRELIBATE PROVOCAZIONI

eisensteinEisenstein in Messico” possiede un ritmo e una scanzonatezza che erano sconosciuti agli ultimi film di Greenaway: autore dell’eccesso per antonomasia, ho apprezzato parecchio il modo in cui si prende gioco, stavolta, di un maestro del cinema. Il gioco gli torna a funzionare bene: merito di un’ispirazione meno intellettualistica, e di una leggerezza che non sempre è nelle sue corde. All’opposto, il tono di “Calvario” di J.M. McDonagh è plumbeo: il suo ritratto di un’umanità sull’orlo dell’apocalisse sulle coste irlandesi è provocatorio e ha il limite dell’autocompiacimento, ma si salva – ed è parecchio interessante – perché mantiene fino in fondo un’intransigenza morale in straniante contrasto con la superficie di un film a più facce.

2015, flop piccoli e grandi

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DELUSIONI COCENTI

Sangue del mio sangue” di Marco Bellocchio. Adoro Bellocchio: e proprio per questo sono rimasto tanto deluso. Questo film ha tutte le caratteristiche di un’incipiente presunzione senile. Le intuizioni sono buone, anzi memorabili. La resa, a tratti, imbarazzante. Dalla scrittura dei dialoghi (a partire proprio dall’italiano moderno nella prima parte del film) alla direzione degli attori. Triste.

Taxi Teheran” di Jafar Panhai è il segno sconfortante che restare intrappolati a Teheran potendo far film solo con un cellulare o poco più, non premia sulla lunga distanza (vedi invece il bel “This is not a film“). Panhai gira la metropoli fingendosi tassista: ma non riesce a fornire dell’Iran di oggi che un pallido ritratto, rimanendo lontano dal magnifico “Dieci” di Kiarostami. I dialoghi con una bambina sulla libertà sono scolastici. C’è, forse, troppo Panhai, in questo film che ha vinto il festival di Berlino.

FLOP PICCOLI E INNOCUI

Jupiter” dei Wachowski e “Crimson Peak” di Guillermo Del Toro sono due stanchi film di genere. Il primo è un pasticcio, per quanto divertente; quello di Del Toro, che ha una confezione ricchissima, ammicca a robe come “I vivi e i morti” di Corman, ma è dominato dalla noia. Un esercizio di stile fine a se stesso, senz’anima.

Non sono riuscito a trovare alcuna virtù neppure stilistica, in “A bigger splash” di Guadagnino, un film addosso al quale comunque non me la sento di sparare come tanti. E’ talmente eccentrico da poter pure piacere per questo: io l’ho trovato risaputo, senza spessore, alla fin fine indifendibile quanto il personaggio di Guzzanti e la scelta di Guzzanti.

Faber in Sardegna“, mediometraggio documentario su De André di Gianfranco Cabiddu, ha trovato una distribuzione cinematografica come ‘evento’, e per il mio grande amore di Fabrizio l’ho pure recensito: ma è buono per una ottima seconda serata in tv.

LA MEDIOCRITA’

Latin Lover” di Cristina Comencini, “Into the Woods” di Rob Marshall: Non ti curar di lor ma guarda e passa (è stato sufficiente scriverne una recensione).

Da fan senza ritegno dello Studio Ghibli, sono corso pieno di speranze a vedere “Il regno dei sogni e della follia“. Visitare lo Studio è stata l’unica cosa interessante: diversi momenti sono piacevoli esperienze, degne però degli extra di un home video, non di un documentario che avrebbe dovuto invece essere di ben altro spessore, all’altezza di ciò che celebra. Invece si allunga e si stiracchia, tra una visita a casa di Hayao e interviste troppo inconsistenti, finendo per girare a vuoto. …E soprattutto: dov’è Isao?

Il premio del pubblico al festival di Tokyo mi ha spinto a recuperare “Se Dio vuole“, esordio alla regia di Edoardo Falcone; tuttavia, per quanto si astenga dalla volgarità media delle commediole italiote (non sempre scurrili, ma comunque volgari), resta un filmetto “carino” e mediocre. Il curriculum da sceneggiatore di Falcone avrebbe dovuto mettermi in guardia.

LE MOLESTIE

Ha creato un polverone critico come pochi, giusto un anno fa, a capodanno del 2015, “American Sniper” di Clint Eastwood: non ci torno sopra, rimando alla recensione.

A molti è piaciuto, io invece ho trovato irritante “The Tribe” di Myroslav Slaboshpytskkiy. Buona l’idea di metterci nella condizione di essere noi i disabili, senza sottotitoli e senza capire un accidenti. Quanto viene narrato è deliberatamente, pretestuosamente provocatorio e disturbante. E inaccettabile dal punto di vista etico-estetico: perché si ricorre ad autentici disabili per mettere in scena una storia verosimile, che forse rispecchia pure la realtà, ma che autentica non è.

SCARSI O INDECENTI

Spectre” di Sam Mendes è un triplo tuffo carpiato in un pozzo di nulla, dopo il brillante exploit di “Skyfall“. “The visit” di M. Night Shyamalan ha i suoi ammiratori. Io, per quanto abbia cercato di apprezzarne ironia e metatesti, ho provato guardandolo la non proprio piacevole sensazione vissuta dal piccolo protagonista, quando il ‘nonno’ gli schiaffa sul volto il pannolone per adulti usato.

Con “Nessuno si salva da solo” Sergio Castellitto tocca il fondo della sua carriera di regista. E per chiudere in bellezza, ho voluto farmi del male con “The green inferno” di Eli Roth, non so come sperando di trovarvi qualcosa all’altezza di “Cannibal Holocaust“. Invece ho trovato persino poco torture porn, ma tanta, tanta noia.

L’arte e il potere. “Francofonia” di Sokurov

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FRANCOFONIA

Una nave-cargo carica di opere d’arte in preda a una tempesta nel Mar del Nord. Aleksandr Sokurov, il regista in persona, è in contatto via skype dalla Russia con il comandante di quella nave che minaccia di affondare. L’arte – l’immortalità dei capolavori – in preda alla brutalità banale delle intemperie. La fragilità dell’arte. Il rischio perenne che l’arte venga violentata, distrutta, perduta.
Più volte, in “Francofonia” , ricorre il dipinto “La zattera della Medusa” di Géricault, conservato al Louvre. Opera in cui si rappresenta una disfatta: della fregata “Medusa”, naufragata al largo della Mauritania, si salvarono in pochissimi, su di una fragile zattera. Il dipinto, d’epoca romantica (1819), ha reso immortale la fragilità di un periodo storico in cui la restaurazione sembrava aver soffocato per sempre i vagiti della democrazia. Eppure, qualcuno si salvò, su quella zattera. Sopravvivere alle intemperie, come a quelle della Storia.
Evidente il parallelo con la zattera della Medusa, del cargo in preda ai marosi che trasporta opere d’arte.

Qui la recensione completa su Ondacinema.

Dell’umanesimo. Il ponte delle spie, S. Spielberg

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focus_bridges_of_spiesUn film umanista che cuce addosso a Tom Hanks il ritratto di un uomo comune, il quale si trasforma in un eroe in circostanze straordinarie, spinto dall’integrità morale che ha riconosciuto nel nemico.

Come spiego alla fine della recensione, nella sua solida narrativa intessuta di classicismo cinematografico si avverte la debolezza dell’elemento conflittuale; ma al di là di questo, il motivo per cui, a mio avviso, questo film non è un “capolavoro” (così come non lo sono i migliori Eastwood post-2000, con l’eccezione di “Letters from Iwo Jima”) risiede semplicemente nella mia convinzione che il classicismo cinematografico statunitense è indissolubilmente legato ad alcuni decenni del XX secolo; e qualunque cosa lo riecheggi oggi, senza apportarvi elementi innovativi, non può essere ritenuto capolavoro.

Tolta questa (pedante) premessa, “Il ponte delle spie” è un bellissimo film. Uno dei più belli di Spielberg, probabilmente.

Qui la recensione, per Ondacinema: Il ponte delle spie.

 

Storia dell’ultimo crisantemo, K. Mizoguchi 1939

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Capolavoro risalente al periodo meno noto di Mizoguchi, condensa la dialettica fra tradizione e innovazione degli anni 30 del maestro nipponico, e testimonia la sua grande influenza sul cinema moderno di cui precorre tematiche e stilemi.

“Storia dell’ultimo crisantemo” (“Zangiku Monogatari”) precede di almeno un decennio il periodo d’oro dei grandi film mizoguchiani degli anni 50, ritenuti, generalmente, i suoi capolavori (“Vita di O-Haru, donna galante”, “I racconti della luna pallida d’agosto, “L’intendente Sanshō”, “Gli amanti crocifissi”). Negli anni 30 il grande maestro nipponico aveva prodotto film di assoluto rilievo (come i primi due scritti con il fidato sceneggiatore Yoda Yoshikata, “Elegia di Osaka” e “Le sorelle di Gion”, entrambi del 1936). Ed esiste persino chi ritiene il Mizoguchi “pre-50” addirittura migliore, più autentico, più “giapponese” (qualunque cosa voglia dire).
Perché è importante, oggi, recuperare un film di Mizoguchi del 1939? Dipende, naturalmente, dal punto di vista: se si è interessati al cinema giapponese, la risposta è scontata. Ma se non è il cinema giapponese a interessarci specificamente, esistono lo stesso valide ragioni per ritenere il Mizoguchi di “Zangiku Monogatari” degno di assoluta considerazione. Se avete voglia e pazienza, probabilmente arriverete alla fine di questa lettura con meno certezze riguardo alla prospettiva più abituale con cui si tende a guardare all’intera storia del cinema.

Continua a leggere su Ondacinema.