Demme
12 buoni film
DOCUMENTARI PREGIATI
Se “Genitori” di Alberto Fasulo è un film minore, lo è nel senso migliore del termine: l’autore ha cioè sentito così tanto l’importanza del tema che affronta (l’esser genitori e parenti di disabili), che rispetto alle sue precedenti contaminazioni con la realtà (“Tir“) aggiunge pochissimo di suo, si fa piccolo piccolo e ci mette di fronte a volti e parole, universi e abissi. Si esce scossi e più ricchi. Un lavoro giusto, nobile, più importante del Cinema.
“Going Clear – Scientology e la prigione della fede” di A. Gibney è un documentario buono (e soprattutto estremamente interessante), che fa quel che deve fare in modo pulito e non tendenzioso. Non ha forse la qualità di Errol Morris, né ambizioni alla Wiseman, ed è lontano dal sarcasmo di Moore: ma Gibney ha un suo stile, magari meno personale, meno cinematograficamente rilevante. Poco male; per aver un buon documentario conta anzitutto il soggetto, non l’autore.
LA MEGLIO FRANCIA
Non perché superare la nouvelle vague sia per forza una necessità (Céline Sciamma nel magnifico “Tomboy” echeggiava i 400 colpi), ma perché, dopo aver parlato dei “soliti” francesi nel limbo, ci tengo a dire subito che a me il cinema francese piace: specie quando non racconta i salotti parigini (nel limbo, ci è finito Audiard che ha vinto la Palma d’oro con il suo film recente meno riuscito; ma s’intenda che “Dheepan” è un discreto 6,5). “Diamante nero” (“Bande de filles“) e “The fighters – addestramento di vita” (“Les combattants“) di Thomas Cailley: un accostamento che mi piace: i film hanno una sotterranea assonanza, una vitalità, una freschezza che li rende entrambi interessanti nel raccontare di fughe, di orgogli, di sbagli, di aspettative frustrate, adottando prospettive in entrambi i casi inusuali e non retoriche. Dalla Sciamma mi attendo un salto di qualità che, però, in “Diamante nero” (o meglio “Bande de filles“) non ho trovato.
GRANDI DONNE, GRANDI ATTRICI
A fronte di una regia al servizio della storia (ma con una discreta idea di fondo centrata sulla sfocatura, e alcuni momenti particolarmente efficaci – su tutti la sequenza dei gusti di gelato), “Still Alice” è sorretto dall’interpretazione magnifica di J. Moore, al suo meglio per raffinatezza e immedesimazione. Un dramma asciutto che sa evitare la retorica: di livello superiore ad analoghe confezioni recenti come “Dallas Buyers Club” (ci avviciniamo a un “Philadelphia”). E a proposito di J. Demme: in attesa di conoscere il destino del capolavoro inedito del 2013 ispirato al “Costruttore Solness” di Ibsen, Demme ci ha regalato, con “Dove eravamo rimasti“, un sincero e commovente omaggio agli anni ’80 e un bel ritratto sfaccettato di una donna indipendente, sofferente ma indomita, affidato a una M. Streep al solito eccezionale per mimesi e trasformismo. Una commedia dal cuore di dramma, che senza replicare i risultati raggiunti dallo straordinario “Rachel sta per sposarsi” fa bene al cuore. Arriva al finale con un eccesso di semplificazione e di buoni sentimenti, è vero. Un cantoncino nella memoria se lo ritaglia.
RETROMANIA
Intendiamoci: le operazioni di J.J. Abrams e di George Miller sono quanto di più diverso tra loro. Ma a conti fatti hanno lo stesso peso. Con “Mad Max – Fury Road” Miller rivela una coerenza, una capacità di riattualizzare una SUA creatura, di mantenersi oltre che “fresco” anche al passo con i tempi, che ha dell’invidiabile. J.J. Abrams lavora su terreno altrui, sul pericoloso crinale fra devozione e irriverenza, logiche soverchianti di mercato e amore personale. Non mi allineo alla schiera di entusiasti dell’operazione di Miller, che pure è stato in grado di fare un film elettrizzante (la componente femminile è insieme il punto di forza e il limite del film: è quello che mi ha preso di più eppure la percepisco un po’ posticcia). Non sono un esegeta di Star Wars e proprio per questo apprezzo la capacità di Abrams di calcare il piede sul terreno dell’ironia, di fare del suo “Star Wars 7 – Il risveglio della forza” uno pseudo-remake che annulla la trilogia prequel con tutti i suoi vizi, e torna a celebrare “Star Wars” (il primo film) per quello che era essenzialmente. Non epos, ma frullato postmoderno (e intrinsecamente parodistico) di vari epos. In grado, oltre che di imporsi nell’immaginario di massa, anche di porsi come perfetta fotografia dell’immaginario di massa a cavallo fra XX e XXI secolo: miti fondativi metabolizzati, frullati, livellati e resi inoffensivi da un’implicita ironia di fondo.
IN ITALIA, NUOVE STRADE
Su “Hungry Hearts” di Saverio Costanzo rimando a una mia ‘pillola’ (v. link). Su “Suburra” di Stefano Sollima dico semplicemente che, lungi dall’essere un film di grande valore ‘artistico’, il suo valore va cercato proprio nel non tentare strade autoriali in un cinema come quello italiano, in cui il talento visivo viene spesso sacrificato in nome della sudditanza a un concetto di autorialità, di cui non sono in tanti a saper reggere il peso piuttosto bene come S. Costanzo. Sollima non ha ambizioni ‘autoriali’ ma solo tematiche; eccede in tutto, pecca più volte per ingenuità e, disinteressandosi palesemente della verosimiglianza, va fuori giri nella seconda parte. Gira insomma un film imperfetto: ma non perde mai il senso della messa in scena, ponendosi sulla scia di quei De Palma e Scorsese che in Italia non abbiamo mai avuto. Evviva.
PRELIBATE PROVOCAZIONI
“Eisenstein in Messico” possiede un ritmo e una scanzonatezza che erano sconosciuti agli ultimi film di Greenaway: autore dell’eccesso per antonomasia, ho apprezzato parecchio il modo in cui si prende gioco, stavolta, di un maestro del cinema. Il gioco gli torna a funzionare bene: merito di un’ispirazione meno intellettualistica, e di una leggerezza che non sempre è nelle sue corde. All’opposto, il tono di “Calvario” di J.M. McDonagh è plumbeo: il suo ritratto di un’umanità sull’orlo dell’apocalisse sulle coste irlandesi è provocatorio e ha il limite dell’autocompiacimento, ma si salva – ed è parecchio interessante – perché mantiene fino in fondo un’intransigenza morale in straniante contrasto con la superficie di un film a più facce.