Recensioni

Jackie di Larraín. L’ipocrisia e il mito.

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jackieDopo mesi di pausa il blog riemerge dal letargo, e a breve lo popolerò di nuovi contenuti relativi ai film usciti negli ultimi mesi. Intanto, è bello per me farlo “risorgere” nel giorno dell’uscita in sala di “Jackie”, dopo che l’ultimo post, risalente a giugno 2016, era su “Neruda”, il precedente clamoroso capolavoro di Larrain.

Leggerete quasi ovunque cose belle e bellissime su questo film; pochi, pochissimi detrattori insistono invece su un presunto ammorbidimento del regista a contatto con la logica produttiva statunitense, o addirittura hanno letto il film come un omaggio (quando invece a me appare tutt’altro) reso a una figura che fu tanto popolare quanto controversa. Questi detrattori finiscono per considerare il film un’opera minore, se non addirittura un passo falso nella carriera di Larrain, per loro ormai sin troppo osannato.
Il regista cileno, in realtà, fa un ritratto che restituisce benissimo la complessità di un tema che gli è molto caro: il rapporto fra l’immagin(azion)e di sé (che discende dal bisogno di qualcosa in cui credere e a cui aggrapparsi) e l’ineliminabile ipocrisia che vi è sottesa. Il discorso è anche politico: il potere esalta questo contrasto e lo rende foscamente affascinante, come in una tragedia classica. La tragedia di Jackie sta nel contrasto che la morte del marito scatena fra la propria immagine privata e la propria immagine pubblica. E nella consapevolezza di tale contrasto.

Ho visto “Jackie” a Venezia, a settembre. Avevo organizzato i miei tre giorni a Venezia attorno a due film: “Voyage of Time” di Malick e questo. E nutrivo, per entrambi, un po’ di timore. Nel caso di Malick i timori hanno trovato conferma; per quanto riguarda il film di Larrain, invece, in gran parte legati all’essere il suo primo film “americano”, sono stati del tutto fugati.

Andate a vederlo; è possibile che possa piacervi anche più di “Neruda”, che per me resta comunque la pellicola con cui Larrain ha toccato sinora il suo apice.

Qui la mia recensione.

“Juste la fin du monde” di Xavier Dolan

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Juste-la-fin-Dolan-MEGA-BOXPer il suo sesto film, che ha vinto il Premio speciale della giuria al 69° festival di Cannes, il ventisettenne cineasta di Montréal adatta quello che è ritenuto il capolavoro di Jean-Luc Lagarce, l’autore teatrale oggi più rappresentato in Francia, di cui non fu mai portato in scena nulla prima della morte avvenuta prematuramente nel 1995.

“Juste la fin du monde” racconta di Louis, un quarantenne che torna dai familiari con cui non ha più rapporti da anni, per annunciare la sua malattia (che non viene mai nominata neanche da Dolan) e la prossima morte.
Dolan conserva la scrittura frammentata di Lagarce in una sceneggiatura il cui flusso di parole, incessante e interrotto di continuo, nasconde più di quanto non riveli. Come i dialoghi sono impostati sulla reticenza, analogamente tutto il film è costruito sul non detto, e la tensione narrativa scaturisce dall’ansia dello spettatore che si chiede quando e se sarà colmato. Affidandosi a prove attoriali particolarmente affiatate (che sintonia e che eccellente direzione degli attori!), nell’isteria di dialoghi senza sbocco le uniche aperture sono i momenti in cui …continua a leggere su OndaCinema

I doppi di “Julieta”

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Julieta_Almodovar_MEGASi è parlato di un Almodóvar inedito, almeno in parte. Effettivamente il film segna uno scarto rispetto alle pellicole più recenti (specie le ultime due) ed appare il suo più significativo dai tempi di “Volver” (2006); ma “Julieta” è una tappa, in un percorso all’insegna dell’essenzialità e dell’asciuttezza, che è carsico all’interno del cinema di Almodóvar, con radici remote in “Che cosa ho fatto io per meritare questo?” (1984), e che proprio in “Volver” aveva trovato un vertice. Si tratta di film girati “in minore” a dispetto della ricchezza dell’intreccio. Allo stesso canone apparteneva anche “Gli abbracci spezzati”  (2009), forse il film più sottovalutato del regista.
Ispirato ai racconti di Alice Munro “Fatalità”, “Fra poco” e “Silenzio” (dalla raccolta “In fuga”), il film non aggiunge elementi di novità alla poetica di Almodóvar, ma ruota intorno a una molteplicità di suoi temi tipici che, come sintetizzati e cristallizzati, vengono qui declinati nella forma del doppio. Binomi inscindibili, come nella vita è inscindibile la felicità dal dolore. In “Julieta” non c’è felicità che non si accompagni a …continua a leggere su OndaCinema.

“Wilde Salome” di Al Pacino

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Arriva in Italia solo nel 2016 il quarto lavoro da regista di Al Pacino, con il quale il grande attore torna a confrontarsi con l’adattamento di un classico del teatro a 15 anni di distanza da “Riccardo III – un uomo, un re”. Se lì Pacino si era confrontato con Shakespeare, adesso è la volta della “Salomè” di Oscar Wilde. Un’opera che racconta del potere sessuale di una Lilith vergine e diabolica, che seduce un re e ne polverizza il potere mascolino, salvo esserne messa a morte.
Nel film si intrecciano molti piani: un documentario su Wilde, un documentario su Al Pacino che intende portare in scena Wilde a Los Angeles (su un set minimale e con costumi in parte moderni), un documentario sulla realizzazione di questo spettacolo che sarà anche un film (e perciò il documentario è anche sulla realizzazione del film), e, anche, quello spettacolo e quel film (al making of si alternano estratti dello spettacolo – del film – stesso). Come se non bastasse, …continua a leggere su OndaCinema.

“Room”: accogliere il mondo.

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Bg98yo_room_01_o2_8707116_1438094948.jpgUn’agente di polizia intima di tacere a un collega superficiale e rinunciatario, mentre cerca di dare senso alle parole confuse di Jack, il bambino protagonista di Room, che vede il mondo per la prima volta. Da ottima detective, in pochi istanti decodifica informazioni all’apparenza incomprensibili che il collega riteneva prive di senso. C’è, in questa donna, ottimismo, determinazione e grande senso pratico. Oltre a un’intesa immediata e materna con Jack. Poco dopo, il nonno di Jack non riesce a sopportare la paternità biologica del nipote, e si fa da parte impacciato, incapace di dire una parola. Queste attitudini rinunciatarie (quella del poliziotto e del nonno) sono entrambe aspetti di un modo di affrontare il mondo con scarsa sensibilità, con scarsa propensione al qui e ora, all’apertura, all’ascolto e all’accoglienza.

La stanza del titolo è quella dove è nato e cresciuto Jack (lo straordinario Jacob Tremblay), recluso per anni insieme alla madre (Brie Larson, appena premiata con l’Oscar). Al compimento del quinto anno di Jack, …continua a leggere su Cineforum

Fuocoammare (G. Rosi, 2016)

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rosi_fuocoammare_3Samuele non riesce a remare. Gira su se stesso con la sua barchetta, nel porto di Lampedusa, e finisce per incastrarsi fra le imbarcazioni ormeggiate. Samuele non ama il mare, gli fa venire la nausea (anche se la pasta al sugo di calamari sembra gradirla). Samuele Pucillo è il bambino lampedusano scovato e prescelto da Gianfranco Rosi come principale ‘protagonista’ isolano – assieme al dottor Pietro Bartolo – in questo film che, dopo l’exploit di “Sacro GRA” a Venezia 2013, si è aggiudicato il massimo riconoscimento al 66° festival di Berlino.

Riconquistare il mare
“Fuocoammare” sembra fatto dei quattro elementi primigeni. La terra: poco più che uno scoglio, al largo dell’Africa. L’aria: un cielo nuvoloso e invernale, foriero di pioggia. Il fuoco: quello del titolo ossimorico, quello delle guerre. E l’acqua del mare. Quel Mediterraneo che è stato sin dagli albori delle civiltà luogo di incontro e di scambi, via da percorrere carichi di merci. E che negli ultimi anni è diventato il cimitero di oltre quindicimila persone in fuga dalle loro terre.
A Samuele, naturalmente, tocca di rappresentare un po’ anche noi, gli europei, e il nostro sguardo. Samuele, come tutti i bambini, …continua a leggere su OndaCinema.

The cat returns (La ricompensa del gatto, 2002)

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Haru, adolescente impacciata e sempre in ritardo, sin da piccola ha una speciale confidenza con i gatti. Una mattina salva un gatto che stava per essere investito per strada: per ricompensarla, il re dei gatti decide di darla in sposa al gatto salvato, che è proprio il figlio del re. Da quel momento, lo scopo di Haru sarà di liberarsi dal mondo in cui viene risucchiata, per riappropriarsi della propria umanità (che sta lentamente soccombendo, visto che si comincia a trasformare parzialmente in gatta).

Evidente le affinità di questo piccolo progetto Ghibli del 2002 con “La città incantata”, capolavoro miyazakiano dell’anno precedente, in cui i genitori della protagonista erano stati trasformati in maiali, e la stessa Chihiro per ritrovare la propria libertà doveva rimettere insieme gli ideogrammi del proprio nome. Il graduale passaggio dal mondo reale alla parallela dimensione felina è forse la parte più riuscita del film, per le soluzioni adottate sia a livello… …continua a leggere su OndaCinema.

A Most Violent Year (1981: Indagine a NY)

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Inflation, no chance to increase the finance. Natural fact is honey, that I can’t pay my taxes. Così canta Marvin Gaye in “Inner City Blues”, che chiude il capolavoro del 1971 “What’s going on”, canzone che J.C. Chandor ha scelto per i titoli di testa del suo film ambientato esattamente dieci anni dopo, in quell’ “anno più violento” che la storia di New York ricordi (il titolo originale del film è “A Most Violent Year”, peraltro bellissimo – al contrario di quello italiano che è anche incongruo: nella trama l’indagine è secondaria).
L’acquisto di un appezzamento sulle rive dell’Hudson incrementerebbe il giro d’affari di Abel Morales, grossista di carburante, rendendolo forse il primo della piazza. La moglie Anna tiene i conti, e trucca i bilanci; lui fa finta di non saperne, e tenta, o s’illude, di restare pulito, mentre la concorrenza gioca sporco, rapinandogli intere partite di carburante. Le autorità indagano, le banche… …continua a leggere su OndaCinema

L’arte e il potere. “Francofonia” di Sokurov

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FRANCOFONIA

Una nave-cargo carica di opere d’arte in preda a una tempesta nel Mar del Nord. Aleksandr Sokurov, il regista in persona, è in contatto via skype dalla Russia con il comandante di quella nave che minaccia di affondare. L’arte – l’immortalità dei capolavori – in preda alla brutalità banale delle intemperie. La fragilità dell’arte. Il rischio perenne che l’arte venga violentata, distrutta, perduta.
Più volte, in “Francofonia” , ricorre il dipinto “La zattera della Medusa” di Géricault, conservato al Louvre. Opera in cui si rappresenta una disfatta: della fregata “Medusa”, naufragata al largo della Mauritania, si salvarono in pochissimi, su di una fragile zattera. Il dipinto, d’epoca romantica (1819), ha reso immortale la fragilità di un periodo storico in cui la restaurazione sembrava aver soffocato per sempre i vagiti della democrazia. Eppure, qualcuno si salvò, su quella zattera. Sopravvivere alle intemperie, come a quelle della Storia.
Evidente il parallelo con la zattera della Medusa, del cargo in preda ai marosi che trasporta opere d’arte.

Qui la recensione completa su Ondacinema.

Dell’umanesimo. Il ponte delle spie, S. Spielberg

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focus_bridges_of_spiesUn film umanista che cuce addosso a Tom Hanks il ritratto di un uomo comune, il quale si trasforma in un eroe in circostanze straordinarie, spinto dall’integrità morale che ha riconosciuto nel nemico.

Come spiego alla fine della recensione, nella sua solida narrativa intessuta di classicismo cinematografico si avverte la debolezza dell’elemento conflittuale; ma al di là di questo, il motivo per cui, a mio avviso, questo film non è un “capolavoro” (così come non lo sono i migliori Eastwood post-2000, con l’eccezione di “Letters from Iwo Jima”) risiede semplicemente nella mia convinzione che il classicismo cinematografico statunitense è indissolubilmente legato ad alcuni decenni del XX secolo; e qualunque cosa lo riecheggi oggi, senza apportarvi elementi innovativi, non può essere ritenuto capolavoro.

Tolta questa (pedante) premessa, “Il ponte delle spie” è un bellissimo film. Uno dei più belli di Spielberg, probabilmente.

Qui la recensione, per Ondacinema: Il ponte delle spie.