Mese: febbraio 2015

“Birdman”: un faustiano trionfo dell’american dream?

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BirdmanIl fantasma dell’opera.

Nel proliferare di pareri e opinioni su “Birdman”, film ammirato e disprezzato in egual misura per un unico vero motivo di fondo (l’autocompiacimento evidente di un regista ambizioso), non mi pare sia stato molto notato l’aggancio ad uno dei più celebri musical in scena a Broadway da decenni: “Il fantasma dell’opera”. Eppure Iñarritu lo mette ripetutamente sotto gli occhi, facendo svolgere tutto il suo film nel teatro che fronteggia quello in cui si rappresenta il musical, la cui icona (la maschera azzurrina del fantasma) è posta più volte in evidenza nel corso del film. Il protagonista di “Birdman” Riggan Thomson si muove nel suo teatro attraverso labirintici cunicoli, come il fantasma nel romanzo di Leroux da cui il musical è tratto*. Entrambi – Thomson/Birdman e il Fantasma dell’opera – sono alle prese con la definizione di un capolavoro artistico nei sotterranei di un teatro; i superpoteri ereditati da Birdman di cui Thomson vorrebbe disfarsi fanno il paio con quelli di cui a volte si serve il fantasma; infine entrambi, nell’ultima scena, si volatilizzano, e il loro svanire è come il marchio della loro inafferrabilità di fondo.

La scissione di Thomson in due personalità sembra riportare a quella fra i due personaggi che, nel “Fantasma dell’opera”, si contendono la bella Christine, e che sono entrambi incarnazioni diverse dell’archetipo della “bestia” con cui flirta la “bella” (“bestia” fisica il Fantasma, “bestia” morale Raoul). Thomson è smarrito nella scissione tra l’ansia di vanagloria artistica con la quale sta cercando di rifarsi una carriera e la tentazione costante e subdola di tornare a identificarsi con il suo alter ego super(omistico)/eroico.

E la bella Christine del “Fantasma”, chi è nel film di Iñarritu? Ironicamente la “bella” Christine è la “brutta” Tabitha Dickinson, l’inflessibile critica del New York Times, la quale terrorizza Thomson con la convinzione che dalla sua recensione dipendano le sorti dello spettacolo. E’ proprio la conquista del suo cuore l’ossessione più profonda di Thomson.

USA vs NYC

“Birdman” è la metafora, furba ma affascinante, con la quale Iñarritu cortocircuita Hollywood e Broadway. Los Angeles e New York: la polarità non è, banalmente, fra cinema e teatro, ma fra i due poli (apparentemente) opposti dell’America dello spettacolo e della cultura di massa. Un’America che è molto meno scissa fra quei due poli di quanto vuole apparire. Se Hollywood rappresenta l’arte asservita all’industria, al dollaro, ciò che si mette in scena nell’intellettualistica New York, con le sue contraddizioni (anzi grazie a esse) possiede il fascino e anela allo status dell’autentica arte. Ed è quello che crede Thomson quando non è Birdman: nei momenti, cioè, in cui appare ossessionato dalla vanagloria dell’autentico talento (della quale tutti gli rimproverano non solo la puerilità, ma anche l’artificiosità, facendogli notare, di fatto, la sua assenza di talento). Ecco: questa condizione è un po’ quella in cui Iñarritu vede imprigionata New York; inclusa, ovviamente, la Tabitha del New York Times.

Il vero motivo di interesse di “Birdman” sta quindi nel suo ritratto/disvelamento delle fragilità della Grande Mela, che ne conferma le contraddizioni e, in definitiva, l’enorme fascino. Gli USA, si sa, detestano i newyorkesi, considerandoli snob e altezzosi. Il blockbuster supereroistico è un vestito che calza a pennello agli Stati Uniti, Paese i cui miti e sogni coincidono con quelli che da sempre fabbrica Hollywood. “Birdman” non attacca più di tanto il mito di Hollywood (anzi, come dimostra bene il finale, lo fa beffardamente trionfare). Le contraddizioni di cui si nutre New York vengono invece scovate e rivoltate come un calzino. Il teatro “colto” di Broadway rappresenta l’illusione intellettuale di New York di essere affrancata dalla volgarità da blockbuster nella quale si rivela (a suo modo candidamente) l’essenza dell’american dream al di là delle sponde dell’Hudson. Iñarritu a New York è come se dicesse: “svegliati, esci dal Novecento, calati dalla torre d’avorio, accetta che la celebrità è oggi data dai clic e dalle visualizzazioni sui social”. Ammetti, finalmente, che a trionfare è stata sempre e sempre sarà, che tu lo voglia o meno, la fabbrica dei sogni.

Birdman si è preso gioco di Thomson per rifarsi una maschera, e viene acclamato dal New York Times che ha penosamente equivocato il significato di un grottesco suicidio che Thomson non ha avuto il coraggio di compiere. Birdman infine si dilegua: inafferrabile e immortale come lo spirito dell’american dream. Thomson dunque trionfa veramente nel momento in cui getta la maschera da “artista impegnato” e riconosce che la sua vera identità è quella di Birdman. Ossia cede alle lusinghe faustiane dell’uomo uccello che è in lui, il solo in grado di librarlo alto sui cieli dell’America (e di New York). Che tutto ciò è detto con ironia è il segno che Iñarritu svolge (meglio: ambirebbe a svolgere…) il ruolo dell’osservatore esterno. Ma lo fa senza scrollarsi di dosso un’ambiguità di intenti che non gli giova. Ciò che trovo fastidioso nella sua ambiguità è che, più che della realtà di cui parla, ciò che è ambiguo è il suo punto di vista. Iñarritu sembra stare con New York, da cui è indiscutibilmente affascinato, però si compiace nel farsi bello agli occhi di Hollywood, facendola persino “vincere” sull’avversaria (in quella che vorrebbe essere una critica all’America stessa).

Intanto Hollywood ringrazia di questo ambiguamente geniale “make up del supereroe sulle sponde dell’Hudson”, mentre noialtri stiamo ancora a perderci intorno a discorsi, che non centrano la questione, sul reale valore del talento di un regista autocompiaciuto che vuole sedurre con avvolgenti piano-sequenza. Eppure, è evidente, Iñarritu non vuol essere il Sokurov di “Arca Russa”, semmai il proprio connazionale Cuaròn (premiato anche lui grazie all’uso del piano-sequenza), che eguaglia nel portare a casa la statuetta per la miglior regia, a un anno di distanza.

Voto 7,5

* E’ addirittura possibile un rapporto tra il fantasma dell’opera e Batman (e “Birdman” rimanda a entrambi): leggo su wikipedia che il fantasma dell’opera – definito da Leroux “signore delle botole” – è “genuino precursore di Batman, l’oscuro vigilante ideato da Bob Kane e Bill Finger, che sembra apparire e scomparire attraverso botole nascoste nei vicoli cittadini”.

“Whiplash”. Un film d’esecuzione, dove prevale il virtuosismo. In tutti i sensi.

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Whiplash_primo_pianoDamien Chazelle, autore e regista di “Whiplash” (classe 1985), prima di dedicarsi al cinema ha studiato musica e si vede. Il film, ambientato nell’immaginario Shaffer Conservatory di New York, è in parte ispirato alle sue esperienze come batterista jazz nella Princeton High School Studio Band, e risente della formazione musicale del regista anche nella sua composizione: con i suoi continui cambi di ritmo, “Whiplash” procede e si sviluppa come il brano che gli dà il titolo. “Whiplash” (letteralmente, “frustata”) è una composizione di Hank Levy definita da Chezelle una dannazione per un batterista: “ancora oggi lo ricordo come un incubo, ma, nonostante questo, mette in mostra il talento di un batterista e la sua follia nella costante ricerca del ritmo“.
Il film ha una genesi curiosa: lo script era già pronto nel 2012, quando Chazelle presentò al Sundance un cortometraggio promozionale, che fu ben accolto, allo scopo di trovare produttori per realizzare il progetto che vide la luce due anni più tardi: di nuovo presentato al Sundance, ha ottenuto il gran premio della giuria e il premio del pubblico. La fortuna del film è poi continuata, con vari premi e candidature fra cui spiccano cinque nomination agli Oscar 2015, tra cui quella a miglior film.

La vicenda è incentrata su un percorso individuale di strenuo perfezionamento del talento, da parte del self made man di turno: Andrew, batterista d’immensa ambizione che …continua a leggere.

Voto 6,5

“Hungry hearts” di Saverio Costanzo: della claustrofobia dell’utero.

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hungry_heartsCostanzo disegna vite chiuse in gabbia, gabbie che sembrano partorite dalla mente di un personaggio e invece derivano dai nodi irrisolti tra il personaggio e chi lo circonda.

Mina passa da una gravidanza non desiderata a una dedizione totalizzante e patologica per il bambino. Il marito Jude precipita suo malgrado nella tela di ragno in cui lei ha trasformato le loro vite segregate. Lei dominata da una “femminile” irrazionalità, lui depositario della luce della ragione? Il film è tutt’altro che manicheo come sembra. Il razionalismo di Jude è progressivamente messo in dubbio, e inaspettatamente ci troviamo a empatizzare con Mina: nonostante l’insostenibilità delle sue posizioni, c’è qualcosa di storto nell’incomprensione di Jude. Il male si annida nel personaggio della suocera, messo bene a fuoco da Mina nell’inconscio sin dal giorno delle nozze. Il ritornare del figlio alla madre è segno della claustrofobia basilare: quella dell’utero. Una casa respingente, carica di sinistri trofei, e un sogno premonitore fanno il resto, verso un finale forse un po’ troppo tagliato con l’accetta. Resteranno vividi quei tristi irrimediabili tramonti sulla spiaggia di Coney Island, con i protagonisti ormai sconfitti.

Il film ha evidenti motivi di pregio nella messa in scena, claustrofobica sin dalla prima sequenza. La mano di un autore che parla anzitutto per immagini si vede nell’uso sapiente del long take e del grandangolo. Lo stile ricalca la paranoia di Mina, l’acme è raggiunto nella parte centrale, poi placarsi poi nella gelida deriva finale. Ha ragione chi scorge un omaggio a Polanski – non necessariamente quello di “Rosemary’s baby” (che è il rimando più ovvio) – così come ne “La solitudine dei numeri primi” erano anche ingombranti i rimandi a Kubrick.

Proprio la classe di Costanzo, la sua eccentricità nel panorama italiano, è anche il suo limite più grande: quando si emanciperà dai suoi grandi modelli, forse potrà regalarci un film molto importante, capace di imporsi anche per ciò che racconta e non, principalmente, per come lo racconta.

Voto 7

“Big Eyes”: tra sguardi malinconici di bimbi orfani e una donna incompresa, il cinema di Burton rimane popolato di freaks.

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BIG EYESE alla fine rimangono impressi soprattutto quei grandi occhi tristi, di tanti bimbi troppo a lungo rimasti orfani della propria madre, che non chiedevano altro se non di vedere riconosciuta la propria vera filiazione. Sono loro i “freaks” burtoniani, gli esseri diversi che catturano l’attenzione di tutti, ma che nessuno comprende e per questo sono irrimediabilmente tristi, condannati alla loro incompresa stranezza. Mi è parso evidente l’aggancio alla poetica di Burton in un film che di burtoniano ha obiettivamente poco, e per questo è stato apprezzato meno di quanto meritasse. Da più qualche anno Burton appare un po’ in crisi, desideroso di liberarsi dei propri stereotipi ma incerto sulla strada da prendere (ma “Dark shadows” è un gioiellino sottovalutato). Da apprezzare quindi il tentativo di emanciparsi, il coraggio di innovarsi, pur riconoscendo gli esiti in parte modesti dell’auto-rilancio di un autore che è stato grande altrove.

Ciò detto “Big Eyes” – ispirato a una vicenda reale paradigmatica sotto il profilo sociologico – merita di esser visto: una storia di riscatto, con la quale empatizzare, più particolare di quanto sembra a prima vista. “Riscatto” non solo femminile, non solo di un individuo. A essere riscattata è la verità in quanto tale, la verità dell’arte, quella della finzione. Cioè la sola che non può, non deve restare occultata. Perché è nella finzione dell’arte che si cela l’autenticità. E l’autenticità dei bambini tristi di Margaret Keane è quella di essere figli suoi e della sua malinconia di donna e di madre. Ovviamente quegli occhi, sgranati e senza lacrime, non sono che i suoi. E’ lei la donna diversa, dotata di una sensibilità artistica e afflitta anche per questo da complessi di colpa e di inadeguatezza, preda di incomprensioni: insomma un corpo estraneo nella superficie degli anni ’50, satura di ipocriti cromatismi. Eh no, anche stavolta Burton non si è liberato dei suoi personalissimi “freaks”, specchio profondo del suo intimo.

Voto 6