recensione
Il “Neruda” di Larrain, tra Borges e Tarantino
In “Neruda” di Pablo Larrain si percepiscono echi di Borges. L’intrigo poliziesco rimanda ai labirinti e ai giochi di specchi metanarrativi di molti racconti del gigante argentino (“Il giardino dei sentieri che si biforcano”, in particolare; ma anche “Tema del traditore e dell’eroe”), evocato già da Lisandro Alonso nei suoi film, specie in “Jauja“. E in “Neruda” l’eco di Borges si coniuga a un’attenzione per il cinema di genere – per il poliziesco, evidentemente – inedita per Larrain, in cui, man mano che il film procede verso una sezione finale quasi astratta, i personaggi acquistano coscienza di sé in quanto personaggi, presi in una trama di cui sono solo pedine: e questo, unito al gioco scoperto con i generi classici (il western, il noir), non può non ricordare qualcuno che apparentemente sta agli antipodi di Borges: Quentin Tarantino. Anche le manipolazioni che Larrain opera sulla Storia ricordano la disinvoltura con cui Tarantino la riarrangia a uso proprio. Lo scarto, evidentemente, sta nei modi: Tarantino agisce in un modo divertito cui (solo apparentemente) è bandita ogni riflessione di matrice intellettuale; Larrain opera in un contesto più tradizionalmente “autoriale”. Eppure il suo “Neruda” assume e rielabora stilemi postmoderni (il narratore inattendibile, ad esempio), memore “anche” di Tarantino, portandoli fuori da un contesto esclusivamente metacinematografico e provando a fare i conti – come da sempre nel proprio cinema, ma ora da una nuova prospettiva – con la Storia del proprio Paese (ancora una volta, è la stessa operazione che si sforza di fare, diversamente ma non poi così tanto, Tarantino).
Voto: forse superiore al 9, in attesa di una nuova visione.
EDIT: alla seconda visione il voto è 10 (pietra miliare)
“Juste la fin du monde” di Xavier Dolan
Per il suo sesto film, che ha vinto il Premio speciale della giuria al 69° festival di Cannes, il ventisettenne cineasta di Montréal adatta quello che è ritenuto il capolavoro di Jean-Luc Lagarce, l’autore teatrale oggi più rappresentato in Francia, di cui non fu mai portato in scena nulla prima della morte avvenuta prematuramente nel 1995.
“Juste la fin du monde” racconta di Louis, un quarantenne che torna dai familiari con cui non ha più rapporti da anni, per annunciare la sua malattia (che non viene mai nominata neanche da Dolan) e la prossima morte.
Dolan conserva la scrittura frammentata di Lagarce in una sceneggiatura il cui flusso di parole, incessante e interrotto di continuo, nasconde più di quanto non riveli. Come i dialoghi sono impostati sulla reticenza, analogamente tutto il film è costruito sul non detto, e la tensione narrativa scaturisce dall’ansia dello spettatore che si chiede quando e se sarà colmato. Affidandosi a prove attoriali particolarmente affiatate (che sintonia e che eccellente direzione degli attori!), nell’isteria di dialoghi senza sbocco le uniche aperture sono i momenti in cui …continua a leggere su OndaCinema
I doppi di “Julieta”
Si è parlato di un Almodóvar inedito, almeno in parte. Effettivamente il film segna uno scarto rispetto alle pellicole più recenti (specie le ultime due) ed appare il suo più significativo dai tempi di “Volver” (2006); ma “Julieta” è una tappa, in un percorso all’insegna dell’essenzialità e dell’asciuttezza, che è carsico all’interno del cinema di Almodóvar, con radici remote in “Che cosa ho fatto io per meritare questo?” (1984), e che proprio in “Volver” aveva trovato un vertice. Si tratta di film girati “in minore” a dispetto della ricchezza dell’intreccio. Allo stesso canone apparteneva anche “Gli abbracci spezzati” (2009), forse il film più sottovalutato del regista.
Ispirato ai racconti di Alice Munro “Fatalità”, “Fra poco” e “Silenzio” (dalla raccolta “In fuga”), il film non aggiunge elementi di novità alla poetica di Almodóvar, ma ruota intorno a una molteplicità di suoi temi tipici che, come sintetizzati e cristallizzati, vengono qui declinati nella forma del doppio. Binomi inscindibili, come nella vita è inscindibile la felicità dal dolore. In “Julieta” non c’è felicità che non si accompagni a …continua a leggere su OndaCinema.
“Room”: accogliere il mondo.
Un’agente di polizia intima di tacere a un collega superficiale e rinunciatario, mentre cerca di dare senso alle parole confuse di Jack, il bambino protagonista di Room, che vede il mondo per la prima volta. Da ottima detective, in pochi istanti decodifica informazioni all’apparenza incomprensibili che il collega riteneva prive di senso. C’è, in questa donna, ottimismo, determinazione e grande senso pratico. Oltre a un’intesa immediata e materna con Jack. Poco dopo, il nonno di Jack non riesce a sopportare la paternità biologica del nipote, e si fa da parte impacciato, incapace di dire una parola. Queste attitudini rinunciatarie (quella del poliziotto e del nonno) sono entrambe aspetti di un modo di affrontare il mondo con scarsa sensibilità, con scarsa propensione al qui e ora, all’apertura, all’ascolto e all’accoglienza.
La stanza del titolo è quella dove è nato e cresciuto Jack (lo straordinario Jacob Tremblay), recluso per anni insieme alla madre (Brie Larson, appena premiata con l’Oscar). Al compimento del quinto anno di Jack, …continua a leggere su Cineforum
Top Seven 2015
Per attribuire a un film un valore particolarmente alto, per elevarlo magari al rango di “capolavoro”, sono determinanti le qualità stilistiche, in particolare gli elementi stilisticamente innovativi (soprattutto quando aprono nuovi linguaggi). Non se ne sono visti molti di film di tale spessore, fra quanti distribuiti in Italia nel 2015, e quei pochi (ad es. quello di Wenders menzionato in decima posizione; ma anche il film di Gaudino) non mi sono parsi di valore altrettanto importante di altri, magari stilisticamente più convenzionali, come alcuni di questi sette. Per quanto imprescindibile, lo stile va calibrato alla sostanza (beninteso non c’è sostanza senza stile), ed esistono capolavori il cui stile può non eguagliare esteticamente la bellezza di altri film, che capolavori non sono. …Tutto questo per dar conto, soprattutto, dei primi due posti: opere esteticamente senz’altro più convenzionali di quelle che pongo al 7° e al 6°, ad esempio (in particolare Moretti non ha mai avuto un senso straordinario della messa in scena; malgrado ciò non può non considerarsi l’autore italiano determinante della sua generazione).
Procediamo.
7. FRANCOFONIA di Alexandr Sokurov
L’arte e il potere. E le inesauribili implicazioni del loro rapporto. In “Francofonia” Sokurov affronta, con modalità quasi godardiane, uno dei nuclei portanti della propria poetica. Il potere che calpesta l’arte è lo stesso che ne ha bisogno; l’arte, costretta a tentare di sopravvivere alle intemperie della Storia, dalle sue vicissitudini trae alimento. Anche dalle più terribili: e proprio il cinema di Sokurov è lì a dimostrarlo. Il suo ultimo film non è (per alcuni) tra i suoi capolavori, ma a me pare cristallino nell’esporre i suoi temi, e potrei quasi preferirlo, soggettivamente, ad “Arca russa“, la cui perfezione tecnica ha una freddezza e una compostezza inumane, che mi hanno sempre quasi inibito. Vedi recensione per Ondacinema (link dal titolo).
6. BELLA E PERDUTA di Pietro Marcello
I film di Sokurov e Marcello hanno alcune affinità ai miei occhi: e al film del Grande Maestro antepongo, in questo gioco che è la classifica, l’imperfezione (voluta, come dimostra il ricorso ad esempio anche a pellicole scadute) di Pietro Marcello, che solo in superficie è meno “sublime”. “Bella e perduta” (un palazzo in rovina, sineddoche dell’Italia), nel suo candore, è film più genuino, autenticamente immaginifico. Dall’attrito tra il reale e la libertà creativa dell’immaginazione scaturiscono oggi film davvero essenziali per il futuro della settima arte: film poetici anzichè prosaici, opere scisse da una logica narrativa, liriche, che partono dalla concretezza della realtà per ricamarci sopra una fantasticheria dell’autore, che magari fiorisce in corso d’opera come è successo a Pietro Marcello. Qui davvero la non-perfezione è una ricchezza.
5. QUANDO C’ERA MARNIE di Hiromasa Yonebayashi
Spoiler alert. Due volte l’ho vista e due volte mi ha commosso, questa storia di una ragazza che si prepara alla vita confrontandosi con la propria nonna da ragazza. Quant’è bello il modo in cui qui si immagina di far rivivere a una nipote, in autentica empatia, i sentimenti provati dalla propria nonna mai conosciuta, come fosse una coetanea e un’amica. Per suggestioni, siamo dalle parti del mio adorato “La doppia vita di Veronica” di Kieslowski. Certo, la regia è un’altra cosa. Ma è pur sempre un Ghibli – auguriamoci aperto sul futuro – e le qualità di cui la casa è garanzia ci sono tutte.
4. L’ALTRA HEIMAT di Edgar Reitz
L’universo di Reitz, inesauribile nelle sue germinazioni, ha partorito un capolavoro che quasi eguaglia la grandezza del primo Heimat (pur mantenendosi inevitabilmente lontano dall’enorme valore della “Seconda Heimat”, ovvero dell’opera cinematografica più vicina alla Recherche di Proust). Questa storia di due fratelli, dei loro destini incrociati, possiede evidentemente qualcosa di archetipico, che Reitz declina in un film ricco di armonia e di suggestioni, di inarrivabile sapienza drammaturgica e scenografica. Si veda una delle dissolvenze incrociate più lunghe della storia del cinema, o la squisita semplicità dei tocchi di colore, o ancora i delicati ‘voli’ della macchina da presa sull’erba alta dei prati. Reitz dialoga con i più grandi, non solo del cinema, cui dà del Tu.
3. FOXCATCHER di Bennet Miller
“Foxcatcher” è il film americano live-action migliore di questi ultimi due anni. Con una messa in scena strepitosa (Miller, al terzo film, è il regista statunitense più interessante e promettente della sua generazione), questo film che stordisce, dall’andamento ipnotico, è una formidabile tragedia contemporanea incentrata sull’individualismo e sul plagio, sul mito del successo e sullo sgretolarsi, sull’implodere delle ambizioni e delle ossessioni, sotto la forza di immane condizionamenti psicologici, primo dei quali quello edipico (Miller sfiora tematiche comuni a PT Anderson, si confronti questo film a “The master“).
2. MIA MADRE di Nanni Moretti
Una riflessione profondissima sull’autenticità: sul bisogno di una finzione narrativa che sia aderente anzitutto all’autenticità, piuttosto e prima ancora che alla “realtà”. Piuttosto che limitarsi a denunciare un disorientamento, l’ultimo film di Moretti vuole scuoterci dall’opacità, stimolare la lucidità. Farci dismettere le maschere, disarmare la finzione; recuperare – appunto – l’autenticità. “Mia madre” è il capolavoro del Moretti post-Apicella, superiore a “La stanza del figlio” (e c’entra, naturalmente, l’autenticità del dato biografico). Vedi, per approfondimenti, la recensione per Ondacinema (link dal titolo).
1.INSIDE OUT di P. Docter, R. del Carmen
E’ il grande capolavoro della Pixar. Superiore a tutti quanti i lungometraggi della casa per profondità, ricchezza, e armonia di resa: superiore anche al miliare “Toy Story” (che gli è più importante esclusivamente per ragioni storiche e tecniche). “Inside Out” è compatto e senza cali: ad esempio, la prima parte di “Wall E” e l’inizio di “Up” sono memorabili, ma entrambi i film faticano ad arrivare alla fine mantenendosi a quei livelli. “Inside Out“, invece, mentre procede cresce. E, come scrive LongTake nella sua bella scheda, “il messaggio finale, che insegna come la Gioia non possa esistere senza la Tristezza, è di commovente, vibrante verità. Un’esperienza esistenziale, più che cinematografica, assolutamente imperdibile. Una tappa nella storia del cinema, d’animazione e non”.
L’arte e il potere. “Francofonia” di Sokurov
Una nave-cargo carica di opere d’arte in preda a una tempesta nel Mar del Nord. Aleksandr Sokurov, il regista in persona, è in contatto via skype dalla Russia con il comandante di quella nave che minaccia di affondare. L’arte – l’immortalità dei capolavori – in preda alla brutalità banale delle intemperie. La fragilità dell’arte. Il rischio perenne che l’arte venga violentata, distrutta, perduta.
Più volte, in “Francofonia” , ricorre il dipinto “La zattera della Medusa” di Géricault, conservato al Louvre. Opera in cui si rappresenta una disfatta: della fregata “Medusa”, naufragata al largo della Mauritania, si salvarono in pochissimi, su di una fragile zattera. Il dipinto, d’epoca romantica (1819), ha reso immortale la fragilità di un periodo storico in cui la restaurazione sembrava aver soffocato per sempre i vagiti della democrazia. Eppure, qualcuno si salvò, su quella zattera. Sopravvivere alle intemperie, come a quelle della Storia.
Evidente il parallelo con la zattera della Medusa, del cargo in preda ai marosi che trasporta opere d’arte.
Qui la recensione completa su Ondacinema.
“Closet Monster”, promettente esordio di Stephen Dunn
Visto alla X festa del cinema di Roma, l’esordio nel lungometraggio di Stephen Dunn, che al 40° festival di Toronto ha vinto il premio come miglior film canadese, è passato a Roma del tutto sotto silenzio, confinato – un po’ incongruamente e oltretutto fuori concorso – nella sezione “Alice nella città”. Si tratta invece di un esordio degno della massima attenzione: un’opera immaginifica che, seguendo le orme di Xavier Dolan (di cui Dunn è coetaneo), non rinuncia a citare anche Cronenberg per coinvolgere lo spettatore nel coming-of-age di Oscar (Connor Jessup), un ragazzo alla scoperta della propria omosessualità, in un contesto sociale da cui emerge un livello di omofobia preoccupante.
Diciamo subito che l’emulazione di Dolan è evidente. Anzi lo è al punto da non costituire un limite su cui insistere (meno che mai un difetto): Dunn, oltre a rivelarsi assolutamente padrone del mezzo con una messa in scena a dir poco vivida, sembra possedere una sua personale cifra estetica, tutt’altro che embrionale, che lo distingue dal famoso collega. …continua a leggere su Ondacinema.
“The Whispering Star”. Il nuovo Sion Sono tra elegia e umanesimo.
Visto in anteprima italiana alla X edizione della festa del cinema di Roma, nel nuovo film di Sion Sono, il suo primo del tutto indipendente, siamo di nuovo a Fukushima, trasfigurata in monito e metafora. Sion Sono azzera il proprio cinema e lo innova con un’ode alla memoria, un’elegia fantascientifica intrisa di umanesimo.
“Questo è un film sui ricordi”, dice Sion Sono nelle note di regia. “Una preghiera per tutte le genti nel mondo che vivono sotto minaccia ogni giorno”. “The whispering star” è stato girato in gran parte nella regione di Fukushima, colpita dallo tsunami dell’11 marzo 2011. Vi recitano le persone che vivono, oggi, in quei luoghi. Persone le cui abitazioni sono state distrutte o evacuate, che insistono a vivere lì dove sono le loro radici. Gli scenari delle sequenze non ambientate nello spazio, in questo eccentrico film di fantascienza, sono le lande desolate della regione di Fukushima, con le loro abitazioni distrutte, i relitti delle barche ancora dispersi sulla terraferma.
Si respira sempre più aria di post-apocalisse nel Giappone di Sion Sono, e Fukushima è diventata …continua a leggere su OndaCinema.
“Mountains May Depart”: lo sradicamento della Cina.
Il film che per molti avrebbe dovuto vincere la Palma d’Oro allo scorso festival di Cannes – dove Jia Zhang-Ke, acclamato come il più importante regista cinese della sua generazione, nonché, a parer mio, uno dei più importanti registi viventi, non ha ancora ottenuto il massimo riconoscimento. Questo “Mountains may depart” è il suo film probabilmente di maggior presa su un pubblico occidentale, anche per le sue sfumature melò, che facilitano il coinvolgimento emotivo dello spettatore.
Non è certamente per questa ragione, comunque, se mi è parso un autentico capolavoro. Uno fra i tanti firmati da Jia. E’, soprattutto, per la cristallina semplicità e chiarezza con cui Jia si esprime, racchiudendo in quest’opera l’essenza della propria poetica. La potenza è tale che non stonano neppure un paio di sottolineature didascaliche, anzi paiono effettivamente opportune.
Suddiviso in tre episodi, che dal 1999 conducono fino al 2025, è il racconto di uno sradicamento. I suoi tre movimenti registrano il passato che si sgretola, nel rinnegamento delle memorie e degli affetti. Sono i segni del progresso, il costo della modernità, le controindicazioni dello sviluppo – di cui Jia, da buon orientale ancorato a tradizioni millenarie, non vede “magnifiche sorti”. Una metafora universale, un monito valido non solo per la Cina contemporanea.
Qui la mia recensione, per OndaCinema.
- 1
- 2
- 3
- Successivo →