Cannes

“Mountains May Depart”: lo sradicamento della Cina.

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Jia_primo_piano_mountainsIl film che per molti avrebbe dovuto vincere la Palma d’Oro allo scorso festival di Cannes – dove Jia Zhang-Ke, acclamato come il più importante regista cinese della sua generazione, nonché, a parer mio, uno dei più importanti registi viventi, non ha ancora ottenuto il massimo riconoscimento. Questo “Mountains may depart” è il suo film probabilmente di maggior presa su un pubblico occidentale, anche per le sue sfumature melò, che facilitano il coinvolgimento emotivo dello spettatore.

Non è certamente per questa ragione, comunque, se mi è parso un autentico capolavoro. Uno fra i tanti firmati da Jia. E’, soprattutto, per la cristallina semplicità e chiarezza con cui Jia si esprime, racchiudendo in quest’opera l’essenza della propria poetica. La potenza è tale che non stonano neppure un paio di sottolineature didascaliche, anzi paiono effettivamente opportune.

Suddiviso in tre episodi, che dal 1999 conducono fino al 2025, è il racconto di uno sradicamento. I suoi tre movimenti registrano il passato che si sgretola, nel rinnegamento delle memorie e degli affetti. Sono i segni del progresso, il costo della modernità, le controindicazioni dello sviluppo – di cui Jia, da buon orientale ancorato a tradizioni millenarie, non vede “magnifiche sorti”. Una metafora universale, un monito valido non solo per la Cina contemporanea.

Qui la mia recensione, per OndaCinema.

Take a look at The other side. “Louisiana” di R. Minervini

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louisianaSu Cineforum, la mia recensione del nuovo film di Roberto Minervini, “Louisiana” (“The other side“, il titolo originale), presentato a Cannes nella sezione Un certain regard. Un “documentario” che non si ferma davanti a nulla nell’indagare entro le pieghe di un’America derelitta e abbandonata a sé: “white trash” si dice, spregiativamente, a proposito di questa umanità, che Minervini osserva senza indulgenze e senza compiacimenti, in un progetto che, se non fa gridare al capolavoro come il precedente “Stop the pounding heart“, è però anche più coraggioso nel portare ancora più avanti un dialogo, quasi sperimentale, fra il reale e la sua messa in scena.

Qui la recensione del film.

MOMMY. Costretta nel formato 1:1, la vitalità di Dolan pulsa più indomita che mai.

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MOMMYMommy” è il quinto film dell’enfant prodige del cinema canadese Xavier Dolan (autore a tutto tondo, che i film se li scrive e spesso – non in questo caso – li interpreta).  “Mommy” – prima opera di Dolan a esser distribuita in Italia – si è aggiudicato il Gran Prix della giuria all’ultimo festival di Cannes, ex aequo con “Adieu au language”, l’ultima, sperimentale provocazione (in 3D) di un autore che giovane lo è rimasto dentro: l’ottantaquattrenne Jean Luc Godard. Ma se Godard, che non ha mai smesso di sperimentare, lo fa sorvegliando le sue creazioni con il piglio rigoroso dell’intellettuale, la peculiarità di Dolan sta nel suo irrefrenabile temperamento emotivo. Una foga priva di freni e di pudore, avida di vita. Il cinema di Dolan è al contempo ingenuo e geniale, specialmente nell’uso delle musiche, in un’accondiscendenza alla cultura visiva delle clip video che invece di apparire kitsch risulta squisitamente genuina.

Con “Mommy“, Dolan, classe 1989, raccontando del tormentato rapporto con la propria madre Diane da parte di un quindicenne affetto da deficit di attenzione, Steve, è tornato sulla materia del suo primo film – scritto a 16 anni e diretto a 20 – “J’ai tué ma mère” (2009). Fu il suo esordio alla regia, e lì vi recitava anche, nelle vesti del protagonista. Nocciolo del film, scopertamente autobiografico, era il rapporto edipico tra un sedicenne e sua madre. Se nel film d’esordio Dolan decise appunto d’interpretare il ruolo del figlio, adesso …continua a leggere…