Mese: gennaio 2016

Top Seven 2015

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Per attribuire a un film un valore particolarmente alto, per elevarlo magari al rango di “capolavoro”, sono determinanti le qualità stilistiche, in particolare gli elementi stilisticamente innovativi (soprattutto quando aprono nuovi linguaggi). Non se ne sono visti molti di film di tale spessore, fra quanti distribuiti in Italia nel 2015, e quei pochi (ad es. quello di Wenders menzionato in decima posizione; ma anche il film di Gaudino) non mi sono parsi di valore altrettanto importante di altri, magari stilisticamente più convenzionali, come alcuni di questi sette. Per quanto imprescindibile, lo stile va calibrato alla sostanza (beninteso non c’è sostanza senza stile), ed esistono capolavori il cui stile può non eguagliare esteticamente la bellezza di altri film, che capolavori non sono. …Tutto questo per dar conto, soprattutto, dei primi due posti: opere esteticamente senz’altro più convenzionali di quelle che pongo al 7° e al 6°, ad esempio (in particolare Moretti non ha mai avuto un senso straordinario della messa in scena; malgrado ciò non può non considerarsi l’autore italiano determinante della sua generazione).
Procediamo.

7. FRANCOFONIA di Alexandr Sokurov

L’arte e il potere. E le inesauribili implicazioni del loro rapporto. In “Francofonia” Sokurov affronta, con modalità quasi godardiane, uno dei nuclei portanti della propria poetica. Il potere che calpesta l’arte è lo stesso che ne ha bisogno; l’arte, costretta a tentare di sopravvivere alle intemperie della Storia, dalle sue vicissitudini trae alimento. Anche dalle più terribili: e proprio il cinema di Sokurov è lì a dimostrarlo. Il suo ultimo film non è (per alcuni) tra i suoi capolavori, ma a me pare cristallino nell’esporre i suoi temi, e potrei quasi preferirlo, soggettivamente, ad “Arca russa“, la cui perfezione tecnica ha una freddezza e una compostezza inumane, che mi hanno sempre quasi inibito. Vedi recensione per Ondacinema (link dal titolo).

Francofonia

6. BELLA E PERDUTA di Pietro Marcello

I film di Sokurov e Marcello hanno alcune affinità ai miei occhi: e al film del Grande Maestro antepongo, in questo gioco che è la classifica, l’imperfezione (voluta, come dimostra il ricorso ad esempio anche a pellicole scadute) di Pietro Marcello, che solo in superficie è meno “sublime”. “Bella e perduta” (un palazzo in rovina, sineddoche dell’Italia), nel suo candore, è film più genuino, autenticamente immaginifico. Dall’attrito tra il reale e la libertà creativa dell’immaginazione scaturiscono oggi film davvero essenziali per il futuro della settima arte: film poetici anzichè prosaici, opere scisse da una logica narrativa, liriche, che partono dalla concretezza della realtà per ricamarci sopra una fantasticheria dell’autore, che magari fiorisce in corso d’opera come è successo a Pietro Marcello. Qui davvero la non-perfezione è una ricchezza.

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5. QUANDO C’ERA MARNIE di Hiromasa Yonebayashi 

Spoiler alert. Due volte l’ho vista e due volte mi ha commosso, questa storia di una ragazza che si prepara alla vita confrontandosi con la propria nonna da ragazza. Quant’è bello il modo in cui qui si immagina di far rivivere a una nipote, in autentica empatia, i sentimenti provati dalla propria nonna mai conosciuta, come fosse una coetanea e un’amica. Per suggestioni, siamo dalle parti del mio adorato “La doppia vita di Veronica” di Kieslowski. Certo, la regia è un’altra cosa. Ma è pur sempre un Ghibli – auguriamoci aperto sul futuro – e le qualità di cui la casa è garanzia ci sono tutte.

marnie

4. L’ALTRA HEIMAT di Edgar Reitz

L’universo di Reitz, inesauribile nelle sue germinazioni, ha partorito un capolavoro che quasi eguaglia la grandezza del primo Heimat (pur mantenendosi inevitabilmente lontano dall’enorme valore della “Seconda Heimat”, ovvero dell’opera cinematografica più vicina alla Recherche di Proust). Questa storia di due fratelli, dei loro destini incrociati, possiede evidentemente qualcosa di archetipico, che Reitz declina in un film ricco di armonia e di suggestioni, di inarrivabile sapienza drammaturgica e scenografica. Si veda una delle dissolvenze incrociate più lunghe della storia del cinema, o la squisita semplicità dei tocchi di colore, o ancora i delicati ‘voli’ della macchina da presa sull’erba alta dei prati. Reitz dialoga con i più grandi, non solo del cinema, cui dà del Tu.

L'altra Heimat

3. FOXCATCHER di Bennet Miller

“Foxcatcher” è il film americano live-action migliore di questi ultimi due anni. Con una messa in scena strepitosa (Miller, al terzo film, è il regista statunitense più interessante e promettente della sua generazione), questo film che stordisce, dall’andamento ipnotico, è una formidabile tragedia contemporanea incentrata sull’individualismo e sul plagio, sul mito del successo e sullo sgretolarsi, sull’implodere delle ambizioni e delle ossessioni, sotto la forza di immane condizionamenti psicologici, primo dei quali quello edipico (Miller sfiora tematiche comuni a PT Anderson, si confronti questo film a “The master“).

FOXCATCHER

2. MIA MADRE di Nanni Moretti

Una riflessione profondissima sull’autenticità: sul bisogno di una finzione narrativa che sia aderente anzitutto all’autenticità, piuttosto e prima ancora che alla “realtà”. Piuttosto che limitarsi a denunciare un disorientamento, l’ultimo film di Moretti vuole scuoterci dall’opacità, stimolare la lucidità. Farci dismettere le maschere, disarmare la finzione; recuperare – appunto – l’autenticità. “Mia madre” è il capolavoro del Moretti post-Apicella, superiore a “La stanza del figlio” (e c’entra, naturalmente, l’autenticità del dato biografico). Vedi, per approfondimenti, la recensione per Ondacinema (link dal titolo).

Mia madre

1.INSIDE OUT di P. Docter, R. del Carmen

E’ il grande capolavoro della Pixar. Superiore a tutti quanti i lungometraggi della casa per profondità, ricchezza, e armonia di resa: superiore anche al miliare “Toy Story” (che gli è più importante esclusivamente per ragioni storiche e tecniche). “Inside Out” è compatto e senza cali: ad esempio, la prima parte di “Wall E” e l’inizio di “Up” sono memorabili, ma entrambi i film faticano ad arrivare alla fine mantenendosi a quei livelli. “Inside Out“, invece, mentre procede cresce. E, come scrive LongTake nella sua bella scheda, “il messaggio finale, che insegna come la Gioia non possa esistere senza la Tristezza, è di commovente, vibrante verità. Un’esperienza esistenziale, più che cinematografica, assolutamente imperdibile. Una tappa nella storia del cinema, d’animazione e non”.

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14 grandi film

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21. CITIZENFOUR di Laura Poitras

Il film che ha strameritato l’Oscar per il miglior documentario. Efficace a riguardo la sintesi di Giancarlo Usai: “ricostruisce, con minuziosità e senza mai rinunciare a una narrazione avvincente da grande schermo, lo scandalo Nsa e la vicenda umana e professionale di Edward Snowden. Un documentario che è prima di tutto un reportage dettagliato, certo, ma che ha il piglio e il ritmo di un vero e proprio thriller. La bravura della Poitras sta proprio in questo saper raccontare eventi reali, senza mai renderli artefatti, eppure tenendo sempre alta la tensione in chi guarda”. Aggiungo: un film di importanza enorme, come documento in presa diretta di una vicenda che deve essere paradigma dello stato delle cose per quanto riguarda la limitazione delle libertà individuali dopo l’11 settembre.

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20. KREUZWEG – LE STAZIONI DELLA FEDE di Dietrich Brüggemann

Un’opera estrema. Una di quelle che basta un minimo spostamento della propria prospettiva per ritenerla in malafede o, viceversa, assolutamente onesta. Propendo decisamente per la seconda interpretazione. Sarebbe scorretto interpretare il film come un pretestuoso atto d’accusa verso la religione. Invece si tratta di un’accusa perentoria dell’ottusità disumana di chi ha bisogno di aggrapparsi al dogma e al proprio esclusivo settarismo pur di mantenere un volto e riconoscersi allo specchio. Non è un discorso di fede, quanto di identità. Declinato con una messa in scena composta di piani sequenza glaciali, con uno sguardo impietoso, asciutto, ma colmo di intransigenza e, al contempo, persino di ironia.

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19. WHILE WE’RE YOUNG (“GIOVANI SI DIVENTA”) di Noah Baumbach

Il regista di Brooklyn realizza il suo film più riuscito sul tema del conflitto generazionale, plasmando al solito con agile duttilità personaggi in bilico fra speranza e disillusione, ambizione e inettitudine, nei cui ritratti è maestro. Percepiamo in Baumbach un’eco rohmeriana per la capacità di mantenere un’ambiguità di fondo che lascia allo spettatore la libertà di stabilire quanto siano più o meno avvilenti, tirate le somme, i ritratti di queste anime in preda alla smania di realizzarsi, di cui la vanità irresistibile di New York è combustibile principale.

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18. LA LEGGE DEL MERCATO di Stéphane Brizé

Questo grande film ha tre assi nella manica, uno dei quali è la superba interpretazione di Lindon (premiata a Cannes). Gli altri due sono l’intreccio – che non vale per le implicazioni socio-economiche, quanto per quelle morali (siamo dalle parti dei Dardenne, o anche di un diabolico episodio del “Decalogo” di Kieslowski) – e una messa in scena inventiva, perpendicolare (Lindon recita quasi sempre di profilo). Quando è frontale, i personaggi sono schiacciati insieme ai loro destini. Fino all’ultima scena dove, forse…

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17. BIRDMAN di Alejandro González Iñárritu

Hollywood ha ringraziato questo make up del supereroe sulle sponde dell’Hudson. Il teatro “colto” di Broadway rappresenta l’illusione intellettuale di New York di essere affrancata dalla volgarità da blockbuster essenza dell’american dream al di là delle sponde dell’Hudson. Si sa: gli USA detestano i newyorkesi, considerandoli snob e altezzosi, mentre i miti e i sogni degli statunitensi coincidono con quelli che da sempre fabbrica Hollywood. “Birdman” non attacca più di tanto il mito di Hollywood (anzi, come dimostrail finale, lo fa beffardamente trionfare): ma questo non è un limite, anzi rende fertile e stimolante un’operazione genialmente ironica almeno quanto è ambiziosa nella (senza dubbio strepitosa) messa in scena.

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16. YOUTH – LA GIOVINEZZA di Paolo Sorrentino

L’accostamento a “Birdman” non è casuale: si tratta di due gioie per gli occhi, per quanto molto autocompiaciute. E anche se il film di Sorrentino non punta al tour de force come prova di regia, per entrambi i film il narcisismo degli autori costituisce uno stesso identico limite. Tuttavia, Sorrentino è stato gravemente frainteso in Italia. Questo è uno dei suoi lavori più complessi e maturi (sì: più maturo de “La grande bellezza”). Mi pare davvero che in pochissimi, se mai qualcuno, abbiano evitato di soffermarsi sui vezzi e le stranezze del consorzio umano descritto dal regista napoletano, per dare piuttosto peso adeguato al cuore del racconto: la descrizione di due opposti modi di invecchiare da parte di due artisti. Il primo (Keitel) centrato sulla vanità e sul narcisismo, l’altro, invece, che rimane uomo prima che artista. E il finale, lungi dall’essere un tornare sui propri passi, è invece il magnifico approdo di un doloroso e intimo percorso che ha portato il personaggio interpretato da Caine a comprendere che, malgrado tutto, per vivere è necessario che anche lo spettacolo vada avanti.

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15. NON ESSERE CATTIVO di Claudio Caligari

Per come la vedo io, gli eccellenti riscontri di critica è più che probabile derivino anche dall’esser tutti un po’ influenzati dalla sorte sfortunata di Claudio Caligari (prima ancora che come uomo come cineasta, s’intende). Ma questo suo postumo finire sotto i riflettori ci ha regalato anche l’opportunità di rivalutare – nel suo film senz’altro più maturo, se non più importante – la specialità di uno sguardo altro, diverso da tutto il panorama italiano che lo circonda: uno sguardo appassionato, privo di vezzi e privo di orpelli, che è anzitutto uno sguardo profondamente umano, colmo di pietas e carico di pathos.

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14. TURNER di Mike Leigh

Il ritratto di un uomo che cercava l’assoluto nella luce e nella natura indomabile, solitario per vocazione. Un ritratto che non sarebbe completo se privo del fondamentale contrappunto fornito dallo sguardo vigile, anche se apparentemente inconsapevole e ottuso, di un’umile serva. Leigh nobilita straordinariamente questa figura: a lei, non per nulla, dedica l’ultima inquadratura. Come a Mary in “Another Year”. A Leigh sono sempre stati maggiormente a cuore i più umili. E forse è in lei che occorre scorgere la protagonista nascosta di “Turner”, l’elefante africano travolto dalla tempesta di neve, senza il quale non sospetteresti l’esercito di Annibale. Vedi recensione su Ondacinema (link dal titolo).

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13. INHERENT VICE (“VIZIO DI FORMA”) di P.T. Anderson 

Dopo due capolavori immensi, P.T. Anderson ha fatto un film che conferma le doti e la versatilità eccezionale di quello che è il più grande regista statunitense della sua generazione. A partire da “There will be blood” (“Il petroliere”) Anderson ha iniziato una rilettura dell’evoluzione degli Stati Uniti secondo una prospettiva in cui paiono centrali i rapporti di potere fondati sulla persuasione e sul dominio psicologico. Gli ultimi tre film fotografano tre tappe successive. “Il petroliere” è il contro-racconto dell’espansione territoriale e capitalista fondata sul mito del self-made man; “The master” si tuffa nei lati oscuri dell’espansione economica degli anni ’50. “Inherent vice” punta a svelare il vizio intrinseco della controcultura, all’alba del riflusso (siamo nel 1970), confrontandosi con i segnali della frantumazione dell’ultimo grande sogno americano, quello utopico dei sixties. Qui, un approfondimento sugli ultimi tre lungometraggi di Anderson. 

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12. VULCANO – IXCANUL di Jayro Bustamante 

Vulcano – Ixcanul”, concentrato sulla marginalità dell’etnia maya nel Guatemala, è uno splendido esempio di come possa farsi grande arte con uno sguardo aderente al reale, anche se scevro da ogni logica documentaristica. Bustamante cala una storia paradigmatica e archetipica di contrasto fra comunità e individuo, eviscerando tutte le contraddizioni fra l’importanza della libertà individuale e quella della salvaguardia delle comunità locali, fra modernità e tradizione; in un amalgama fra natura e civiltà, che travalica la denuncia. Un’opera insieme visionaria e realista, splendida negli aspetti stilistici quanto fondamentale per quelli socioculturali. Se lo colloco così in alto è anche per premiare una cinematografia “marginale”, di un’area cinematograficamente parlando in grande fermento (l’America latina); e anche la coraggiosa distribuzione italiana.

ixcanul

11. PER AMOR VOSTRO di Giuseppe M. Gaudino

Anna è donna, donna del Sud, madre. Il personaggio è valso a Valeria Golino il premio per la miglior interpretazione a Venezia. Quella di Per amor vostro, film materico, imbevuto di Napoli, del suo ventre, del suo sottosuolo, è la storia di un’inaspettata redenzione da parte di una madre la cui forza è l’amore felicemente istintivo per i figli. Per amor loro, il suo bisogno di fuga si concretizza in un riscatto civile e morale, che è anzitutto il riscatto della donna sul maschio – che sia fratello, marito o amante. Spesso, non a caso, strozzino. Vedi recensione su Cineforum (link dal titolo).

Foto di scena del film

10. EVERY THING WILL BE FINE (“RITORNO ALLA VITA”) di Wim Wenders

Il film stilisticamente più innovativo dell’anno (anche se il soggetto non è altrettanto clamoroso), è questo secondo esperimento di Wenders con il 3D, dopo il clamoroso documentario “Pina”. Wenders apre il 3D a un dialogo con la dissolvenza, le sovrimpressioni, la fotografia, i riflessi, i riquadri nel quadro, e naturalmente con la profondità di campo. Particolarmente insistito, il ricorso all’uso dello zoom avanti/carrello indietro – come in “Vertigo” – che, in 3D, contribuisce al disorientamento emotivo su cui tutto il film è fondato. A parte l’uso disarticolante ed estremo (e provocatorio) di Godard, questo è il film in cui l’uso del 3D è il più bello che sia mai stato fatto sinora. Vedi recensione su Cineforum (link dal titolo).

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9. THE WALK di Robert Zemeckis

3D di grande impatto, che esalta una visione cui è straordinariamente funzionale. Ma non è questo il merito di “The walk”, che – sin dalla sua strutturazione narrativa e scenografica – è soprattutto un bellissimo inno al Cinema. Alla sua capacità di farci sognare e di lasciare che i sogni siano immortali. Le persone invecchiano; tutti un giorno moriremo. I miti crollano, come le torri. Ma l’accesso ai miti è eterno. L’ultima scena di “The walk” è memorabile, e dice tutto a riguardo. La libertà di sognare e la pervicacia di seguire i propri sogni dona valore alla vita (alla vita, non alla morte).

Philippe Petite (Joseph Gordon-Levitt) in TriStar Pictures' THE WALK.

8. TIMBUKTU di Abderrahmane Sissako

Sissako è regista enorme, e la messa in scena di “Timbuktu” è pazzesca. La scelta dei campi, dai primi piani ai campi lunghissimi, lascia senza parole. Niente di mai visto, ma davvero da togliersi il cappello. Dopo averlo rivisto, è cresciuto nella mia già alta considerazione. Ed è davvero tanto importante un’opera che oggi ci prova a raccontare un fenomeno complesso come quello lì, che le tragedie più terribili li crea in posti come il Mali, non tanto a Parigi (per quanto grave sia quanto accaduto).

Timbuktu

 

2015, 14 film notevoli

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Il 7 e mezzo (il voto, non il gioco a carte) è la mia croce e delizia. Se lo beccano film in ogni caso notevoli: ma di due specie. Grandi film mancati (anche capolavori mancati, a volte), oppure film più che buoni. ‘Notevoli’ appunto. Per i primi il 7,5 è una specie di declassamento; per i secondi, un premio.

In questi 14 film ci sono 7 grandi film mancati e 7 film più che buoni. I più che buoni sono: “La isla minima”, “Cloro”, “She’s funny that way”, “Il racconto dei racconti”, “45 anni”, “Ex machina” e “Babadook”. Gli altri sono: “National Gallery”, “Il ponte delle spie”, “Blackhat”, “The lobster”, “E’ arrivata mia figlia”, “Forza maggiore” e “Louisiana – The other side”. Qui sotto troverete spiegato il perché, in riferimento a ciascuno.

Per gioco li metto in classifica, però mischiati. Eccoli, dalla 35° posizione alla 22° della classifica dell’anno:

35. LA ISLA MINIMA di Alberto Rodriguez

Nella Spagna del 1980, appena (non) uscita dal franchismo, alle foci del Guadalquivir, tra labirintiche paludi, si consuma il confronto tra due investigatori in cui, come in un chiasmo, si incrociano freddezza e calore umano, metodi ortodossi e più disinvolti, aspirazioni democratiche e nostalgie per la dittatura. Un incrocio storico e umano fascinoso, che sconta un eccesso di rimandi al già visto americano (ad es. “True Detective”). Incetta di premi Goya. Faccio un’eccezione alla regola del blog, dove linko solo recensioni mie: quella di Antonio Pettierre su Ondacinema merita una letta.

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34. CLORO di Lamberto Sanfelice.

Un notevole esordio italiano, di cui parlo nella recensione per Ondacinema (vedi link dal titolo; qui invece la mia intervista con il regista).

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33. NATIONAL GALLERY di Frederick Wiseman

…Troppo in basso? Si tratta infatti di un documentario di Wiseman: e i documentari di Wiseman raggiungono sistematicamente l’eccellenza. Forse, rispetto ad altri documentari in cui Wiseman esplora una singola istituzione e ce ne svela vita e funzionamento, questo “National Gallery” è leggermente meno incisivo e più ripetitivo (nelle sue 3 ore di durata). A me ha colpito più di tutto il confronto tra i volti dei dipinti e i volti dei visitatori. Un insistito campo/controcampo fra l’arte e i suoi osservatori immortalati da Wiseman, che è l’aspetto più suggestivo di un film che non offre, per altri versi, altrettanti spunti di grande interesse quanti, ad esempio, “At Berkeley” (4 ore e non sentirle).

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32. SHE’S FUNNY THAT WAY (TUTTO PUO’ACCADERE A BROADWAYdi Peter Bogdanovich

Il ritorno dietro la macchina da presa da parte del grande Bogdanovich è un’irresistibile commedia fitta di metatesti, tipicamente postmoderna, ricca di grazia, inventiva, trovate di sceneggiatura e di regia. Un divertimento (da godere assolutamente in lingua originale) di alto livello, che va contestualizzato e preso per quello che è: un divertissement di effervescente vitalità, delizioso e mai lezioso.

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31. IL PONTE DELLE SPIE di Steven Spielberg

Troppo in basso per tutti, lo so. Eppure l’ho apprezzato (e spero che il mio apprezzamento trapeli, nella recensione). Ma questo classicismo luminoso è – come cerco di spiegare nell’ultimo paragrafo – un po’ privo di ombre. Mi è mancato di percepire la forza degli antagonisti, mi è mancato il senso del conflitto. Film di gran classe: ma didascalico, programmatico, prevedibile. Una sceneggiatura oliata, cristallina, che si imprime nella memoria eppure non è memorabile. – Il Grande Cinema DEVE innovare. E il classicismo americano, da sempre e non solo nei suoi epigoni, ha un vizio intrinseco: inibisce lo sguardo dell’autore, che sarebbe il solo capace di innovare, facendo di un film qualcosa di autenticamente Grande.

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30. BLACKHAT di Michael Mann

Al solito grandissima prova di regia di uno dei maggiori cineasti americani viventi. Assolutamente ‘sul pezzo’ dell’attualità, capace di penetrare letteralmente dentro i meandri impalpabili delle nuove tecnologie, sviscerandone le minacce che da evanescenti vengono riportate a forza alla loro dimensione concreta, alla fisicità dello scontro – all’arma bianca, addirittura. Al contrario che nel film di Spielberg, qui è tutto incerto e imprevedibile, sino alla fine: i conflitti ci sono eccome, e sono adrenalinici. Manca, tuttavia, la forza degli antagonisti. E, se mi è permesso, anche un protagonista di spessore. Rispetto ai titoli cardine di Michael Mann, anche i più recenti come lo straordinario “Miami Vice“, questo “Blackhat” ha qualcosa in meno. Ci sono momenti totali, dove pulsa la vita (tutta la sezione di Hong Kong è straordinaria): predomina però il sapore freddo del metallo: device, pallottole o lame che siano.

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29. IL RACCONTO DEI RACCONTI di Matteo Garrone

Il più grande autore italiano della sua generazione si cimenta con coraggio in territori decisamente poco consueti per il cinema italiano. Ne esce fuori un prodotto affascinante da parte di un regista ossessionato dal corpo e dal desiderio. In pochi si sono soffermati sul filo segreto che collega nella visione di Garrone i tre racconti scelti dalla raccolta di Giambattista Basile: la vanagloria e l’amor di sé che prevalica persino l’amore filiale. Manca l’amalgama fra le parti? Garrone non ha voluto ambire all’ennesimo capolavoro: il fatto che “Il racconto dei racconti” sia un’opera che apre in tante direzioni, che tenta tante strade, che accavalla storie e ritmi in modo disorganico, rende l’operazione più meticcia e suggestiva.

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28. THE LOBSTER di Yorgos Lanthimos

Lanthimos, talento di punta della nuova onda greca, autore di un film di culto come “Kynodontas”, per la prima volta alle prese con una produzione internazionale, fa un cinema che ha pochissimi eguali nel panorama mondiale. Rifugge dal realismo per inseguire grandi Allegorie, con uno spirito molto affine a Saramago (devo l’intuizione al mio amico Giuseppe). E le sue sono allegorie assolutamente politiche, ben prima di essere antropologiche. “The lobster” è un film a due facce. Diviso in due parti come si spacca una mela. La prima mostra il totalitarismo (non istituzionale, ma – e questo è il bello – quello sociale, in cui ciascun individuo sceglie consapevolmente di rimettere la propria libertà in mano altrui). La seconda mostra come la rivoluzione diventi a sua volta totalitaria. Niente di nuovo: lo insegna la Storia. Non c’è via di fuga. Di nuovo c’è il modo di esprimersi di Lanthimos, che sceglie di volare alto come Icaro, e si regge in volo maestosamente nella prima parte, per accartocciarsi e rischiare più volte di bruciarsi nella seconda: che è la parte più affascinante, più rischiosa, con molti momenti ancora eccezionali (vedi foto sotto), ma anche un avvitamento progressivo verso un finale, più che allegorico, anacoluto.

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27. QUE HORAS ELA VOLTA? (“E’ arrivata mia figlia”) di Anna Muylaert

Film superlativo anzitutto a livello di messa in scena, clamorosa nel fare di elementi architettonici il principale correlativo oggettivo che separa le due classi sociali – ricchi e poveri – che compongono le società latinoamericane, e che non fatichiamo a immaginare saranno le uniche due classi, molto presto, anche da noi. Ma se il soggetto del film è di importanza capitale (anche per come riesce a penetrare sottilmente dentro a un conflitto generazionale trasversale a quello sociale), a decretarne la grandezza è la maestria registica che con l’uso di mascherini diegetici imprigiona e divide i personaggi dimostrando di saper attualizzare splendidamente la lezione di maestri come Mizoguchi. Peccato che il film si perda un poco in un finale eccessivamente conciliante e consolatorio. 

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26. 45 ANNI di Andrew Haigh

La grandezza di questo film inglese che è stato un caso cinematografico si regge su due pilastri solidi come rocce: un’interpretazione tra le maggiori di un’attrice immensa come poche altre (viventi e non), e una resa delicatissima della diversa sensibilità maschile e femminile, di fronte al diverso peso affidato a una memoria lontana mezzo secolo, ma intatta e viva come una mummia conservata nel ghiaccio. Non ci sono colpe: è una questione di identità di coppia, sottoposta a sommovimenti tellurici silenziosi (non necessariamente fratture) in grado di mettere a repentaglio il senso di sé, di ciò che si è e di ciò che si è stati. Memorabile, davvero, la scena delle diapositive.

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25. FORZA MAGGIORE di Ruben Östlund

Ancora un film sulla diversa sensibilità maschile e femminile. E l’accostamento con il film di Haigh non è casuale. Ancora un evento dal significato piccolo per l’uomo, immenso per la donna. Lo scarto è ancora più sottile che in “45 anni“, la frattura che si apre più dolorosa, la crisi cui è sottoposta l’identità dell’uomo-maschio ancora più lacerante. Ed Östlund possiede un senso rigorosissimo e calibratissimo della messa in scena, lontano dallo stile sfumato di Haigh. Peccato che il film perda potenza approdando a un inceppamento finale posticcio, che lascia una sensazione di irrisolto.

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24. LOUISIANA – THE OTHER SIDE di Roberto Minervini

Ibrido fecondo fra realtà e finzione: coraggioso, necessario e difficilissimo. Merita applausi a scena aperta il nuovo film di Roberto Minervini, marchigiano d’origine e statunitense d’adozione, che vive a contatto intimo per mesi con il più marginale e invisibile profondo sud degli Stati Uniti. Ne esce fuori un film imperfetto, perché i rischi erano tantissimi, e non tutte le trappole sono superate. Alcuni passaggi ricostruiti e una certa programmaticità: vedi mia recensione su Cineforum (link dal titolo). Si tratta di limiti marginali in un film che è un pugno nello stomaco importante, oggi, quanto l’esordio di Claudio Caligari di 30 anni fa. Semmai, ci fa rimpiangere ancor di più il talento di Caligari, lasciandoci capire quanto fosse stato miliare “Amore tossico“.

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23. EX MACHINA di Alex Garland

Gli esordi alla regia di uno sceneggiatore sono sempre un rischio. Garland se la cava alla grande con un film eccezionale. Mascherato da fantascienza distopica, il valore di “Ex machina” sta tutto nel discorso di genere che sviscera benissimo Pier Maria Bocchi.

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22. BABADOOK di Jennifer Kent

Horror australiano, fitto di rimandi psicanalitici messi splendidamente in immagini e simboli (basti, su tutti, quella frattura sulla parete della cucina…), è non a caso di una regista donna. Jennifer Kent dimostra come sia ancora possibile prendere un soggetto archetipico come il babau e fare un’opera memorabile, destinata a imprimersi con forza nel genere e non solo. Il rapporto tra madre (sola) e bambino, e tutto (o quasi) ciò che esso può contenere, non era ancora stato tradotto così bene in forma di fiaba contemporanea di paura.

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