vizio di forma
14 grandi film
21. CITIZENFOUR di Laura Poitras
Il film che ha strameritato l’Oscar per il miglior documentario. Efficace a riguardo la sintesi di Giancarlo Usai: “ricostruisce, con minuziosità e senza mai rinunciare a una narrazione avvincente da grande schermo, lo scandalo Nsa e la vicenda umana e professionale di Edward Snowden. Un documentario che è prima di tutto un reportage dettagliato, certo, ma che ha il piglio e il ritmo di un vero e proprio thriller. La bravura della Poitras sta proprio in questo saper raccontare eventi reali, senza mai renderli artefatti, eppure tenendo sempre alta la tensione in chi guarda”. Aggiungo: un film di importanza enorme, come documento in presa diretta di una vicenda che deve essere paradigma dello stato delle cose per quanto riguarda la limitazione delle libertà individuali dopo l’11 settembre.
20. KREUZWEG – LE STAZIONI DELLA FEDE di Dietrich Brüggemann
Un’opera estrema. Una di quelle che basta un minimo spostamento della propria prospettiva per ritenerla in malafede o, viceversa, assolutamente onesta. Propendo decisamente per la seconda interpretazione. Sarebbe scorretto interpretare il film come un pretestuoso atto d’accusa verso la religione. Invece si tratta di un’accusa perentoria dell’ottusità disumana di chi ha bisogno di aggrapparsi al dogma e al proprio esclusivo settarismo pur di mantenere un volto e riconoscersi allo specchio. Non è un discorso di fede, quanto di identità. Declinato con una messa in scena composta di piani sequenza glaciali, con uno sguardo impietoso, asciutto, ma colmo di intransigenza e, al contempo, persino di ironia.
19. WHILE WE’RE YOUNG (“GIOVANI SI DIVENTA”) di Noah Baumbach
Il regista di Brooklyn realizza il suo film più riuscito sul tema del conflitto generazionale, plasmando al solito con agile duttilità personaggi in bilico fra speranza e disillusione, ambizione e inettitudine, nei cui ritratti è maestro. Percepiamo in Baumbach un’eco rohmeriana per la capacità di mantenere un’ambiguità di fondo che lascia allo spettatore la libertà di stabilire quanto siano più o meno avvilenti, tirate le somme, i ritratti di queste anime in preda alla smania di realizzarsi, di cui la vanità irresistibile di New York è combustibile principale.
18. LA LEGGE DEL MERCATO di Stéphane Brizé
Questo grande film ha tre assi nella manica, uno dei quali è la superba interpretazione di Lindon (premiata a Cannes). Gli altri due sono l’intreccio – che non vale per le implicazioni socio-economiche, quanto per quelle morali (siamo dalle parti dei Dardenne, o anche di un diabolico episodio del “Decalogo” di Kieslowski) – e una messa in scena inventiva, perpendicolare (Lindon recita quasi sempre di profilo). Quando è frontale, i personaggi sono schiacciati insieme ai loro destini. Fino all’ultima scena dove, forse…
17. BIRDMAN di Alejandro González Iñárritu
Hollywood ha ringraziato questo make up del supereroe sulle sponde dell’Hudson. Il teatro “colto” di Broadway rappresenta l’illusione intellettuale di New York di essere affrancata dalla volgarità da blockbuster essenza dell’american dream al di là delle sponde dell’Hudson. Si sa: gli USA detestano i newyorkesi, considerandoli snob e altezzosi, mentre i miti e i sogni degli statunitensi coincidono con quelli che da sempre fabbrica Hollywood. “Birdman” non attacca più di tanto il mito di Hollywood (anzi, come dimostrail finale, lo fa beffardamente trionfare): ma questo non è un limite, anzi rende fertile e stimolante un’operazione genialmente ironica almeno quanto è ambiziosa nella (senza dubbio strepitosa) messa in scena.
16. YOUTH – LA GIOVINEZZA di Paolo Sorrentino
L’accostamento a “Birdman” non è casuale: si tratta di due gioie per gli occhi, per quanto molto autocompiaciute. E anche se il film di Sorrentino non punta al tour de force come prova di regia, per entrambi i film il narcisismo degli autori costituisce uno stesso identico limite. Tuttavia, Sorrentino è stato gravemente frainteso in Italia. Questo è uno dei suoi lavori più complessi e maturi (sì: più maturo de “La grande bellezza”). Mi pare davvero che in pochissimi, se mai qualcuno, abbiano evitato di soffermarsi sui vezzi e le stranezze del consorzio umano descritto dal regista napoletano, per dare piuttosto peso adeguato al cuore del racconto: la descrizione di due opposti modi di invecchiare da parte di due artisti. Il primo (Keitel) centrato sulla vanità e sul narcisismo, l’altro, invece, che rimane uomo prima che artista. E il finale, lungi dall’essere un tornare sui propri passi, è invece il magnifico approdo di un doloroso e intimo percorso che ha portato il personaggio interpretato da Caine a comprendere che, malgrado tutto, per vivere è necessario che anche lo spettacolo vada avanti.
15. NON ESSERE CATTIVO di Claudio Caligari
Per come la vedo io, gli eccellenti riscontri di critica è più che probabile derivino anche dall’esser tutti un po’ influenzati dalla sorte sfortunata di Claudio Caligari (prima ancora che come uomo come cineasta, s’intende). Ma questo suo postumo finire sotto i riflettori ci ha regalato anche l’opportunità di rivalutare – nel suo film senz’altro più maturo, se non più importante – la specialità di uno sguardo altro, diverso da tutto il panorama italiano che lo circonda: uno sguardo appassionato, privo di vezzi e privo di orpelli, che è anzitutto uno sguardo profondamente umano, colmo di pietas e carico di pathos.
14. TURNER di Mike Leigh
Il ritratto di un uomo che cercava l’assoluto nella luce e nella natura indomabile, solitario per vocazione. Un ritratto che non sarebbe completo se privo del fondamentale contrappunto fornito dallo sguardo vigile, anche se apparentemente inconsapevole e ottuso, di un’umile serva. Leigh nobilita straordinariamente questa figura: a lei, non per nulla, dedica l’ultima inquadratura. Come a Mary in “Another Year”. A Leigh sono sempre stati maggiormente a cuore i più umili. E forse è in lei che occorre scorgere la protagonista nascosta di “Turner”, l’elefante africano travolto dalla tempesta di neve, senza il quale non sospetteresti l’esercito di Annibale. Vedi recensione su Ondacinema (link dal titolo).
13. INHERENT VICE (“VIZIO DI FORMA”) di P.T. Anderson
Dopo due capolavori immensi, P.T. Anderson ha fatto un film che conferma le doti e la versatilità eccezionale di quello che è il più grande regista statunitense della sua generazione. A partire da “There will be blood” (“Il petroliere”) Anderson ha iniziato una rilettura dell’evoluzione degli Stati Uniti secondo una prospettiva in cui paiono centrali i rapporti di potere fondati sulla persuasione e sul dominio psicologico. Gli ultimi tre film fotografano tre tappe successive. “Il petroliere” è il contro-racconto dell’espansione territoriale e capitalista fondata sul mito del self-made man; “The master” si tuffa nei lati oscuri dell’espansione economica degli anni ’50. “Inherent vice” punta a svelare il vizio intrinseco della controcultura, all’alba del riflusso (siamo nel 1970), confrontandosi con i segnali della frantumazione dell’ultimo grande sogno americano, quello utopico dei sixties. Qui, un approfondimento sugli ultimi tre lungometraggi di Anderson.
12. VULCANO – IXCANUL di Jayro Bustamante
Vulcano – Ixcanul”, concentrato sulla marginalità dell’etnia maya nel Guatemala, è uno splendido esempio di come possa farsi grande arte con uno sguardo aderente al reale, anche se scevro da ogni logica documentaristica. Bustamante cala una storia paradigmatica e archetipica di contrasto fra comunità e individuo, eviscerando tutte le contraddizioni fra l’importanza della libertà individuale e quella della salvaguardia delle comunità locali, fra modernità e tradizione; in un amalgama fra natura e civiltà, che travalica la denuncia. Un’opera insieme visionaria e realista, splendida negli aspetti stilistici quanto fondamentale per quelli socioculturali. Se lo colloco così in alto è anche per premiare una cinematografia “marginale”, di un’area cinematograficamente parlando in grande fermento (l’America latina); e anche la coraggiosa distribuzione italiana.
11. PER AMOR VOSTRO di Giuseppe M. Gaudino
Anna è donna, donna del Sud, madre. Il personaggio è valso a Valeria Golino il premio per la miglior interpretazione a Venezia. Quella di Per amor vostro, film materico, imbevuto di Napoli, del suo ventre, del suo sottosuolo, è la storia di un’inaspettata redenzione da parte di una madre la cui forza è l’amore felicemente istintivo per i figli. Per amor loro, il suo bisogno di fuga si concretizza in un riscatto civile e morale, che è anzitutto il riscatto della donna sul maschio – che sia fratello, marito o amante. Spesso, non a caso, strozzino. Vedi recensione su Cineforum (link dal titolo).
10. EVERY THING WILL BE FINE (“RITORNO ALLA VITA”) di Wim Wenders
Il film stilisticamente più innovativo dell’anno (anche se il soggetto non è altrettanto clamoroso), è questo secondo esperimento di Wenders con il 3D, dopo il clamoroso documentario “Pina”. Wenders apre il 3D a un dialogo con la dissolvenza, le sovrimpressioni, la fotografia, i riflessi, i riquadri nel quadro, e naturalmente con la profondità di campo. Particolarmente insistito, il ricorso all’uso dello zoom avanti/carrello indietro – come in “Vertigo” – che, in 3D, contribuisce al disorientamento emotivo su cui tutto il film è fondato. A parte l’uso disarticolante ed estremo (e provocatorio) di Godard, questo è il film in cui l’uso del 3D è il più bello che sia mai stato fatto sinora. Vedi recensione su Cineforum (link dal titolo).
9. THE WALK di Robert Zemeckis
3D di grande impatto, che esalta una visione cui è straordinariamente funzionale. Ma non è questo il merito di “The walk”, che – sin dalla sua strutturazione narrativa e scenografica – è soprattutto un bellissimo inno al Cinema. Alla sua capacità di farci sognare e di lasciare che i sogni siano immortali. Le persone invecchiano; tutti un giorno moriremo. I miti crollano, come le torri. Ma l’accesso ai miti è eterno. L’ultima scena di “The walk” è memorabile, e dice tutto a riguardo. La libertà di sognare e la pervicacia di seguire i propri sogni dona valore alla vita (alla vita, non alla morte).
8. TIMBUKTU di Abderrahmane Sissako
Sissako è regista enorme, e la messa in scena di “Timbuktu” è pazzesca. La scelta dei campi, dai primi piani ai campi lunghissimi, lascia senza parole. Niente di mai visto, ma davvero da togliersi il cappello. Dopo averlo rivisto, è cresciuto nella mia già alta considerazione. Ed è davvero tanto importante un’opera che oggi ci prova a raccontare un fenomeno complesso come quello lì, che le tragedie più terribili li crea in posti come il Mali, non tanto a Parigi (per quanto grave sia quanto accaduto).
“Vizio di forma” di P.T. Anderson. L’occultamento dei persuasori e l’inherent vice dei sixties.
Paul Thomas Anderson a partire da “There will be blood” (“Il petroliere”) ha iniziato una rilettura dell’evoluzione degli Stati Uniti secondo una prospettiva in cui paiono centrali i rapporti di potere fondati sulla persuasione e sul dominio psicologico. Gli ultimi tre film fotografano tre tappe successive: “Il petroliere” è il contro-racconto dell’espansione territoriale e capitalista fondata sul mito del self-made man; “The master” si tuffa nei lati oscuri dell’espansione economica degli anni ’50; “Inherent vice” (“Vizio di forma”) punta a svelare il vizio intrinseco della controcultura, all’alba del riflusso (siamo nel 1970), confrontandosi con i segnali della frantumazione dell’ultimo grande sogno americano, quello utopico dei sixties.
Tipici del cinema di Anderson sono alcuni personaggi che esercitano il proprio dominio facendo massiccio ricorso alla retorica verbale (Eli Sunday in “There will be blood”, che richiama il guru interpretato da Tom Cruise in “Magnolia”, sarà replicato a sua volta in “The master” dal Lancaster Dodd di Philip Seymour Hoffman). Un personaggio del genere manca a “Vizio di forma”: nel passaggio da un film all’altro, l’attenzione di Anderson sembra spostarsi progressivamente dai persuasori a coloro che ne sono succubi. Se “Il petroliere” si concentra sulle figure dominanti – in piena luce anche agli occhi della comunità fra loro contesa – in “Vizio di forma” non si vede più chi detiene il potere. Si è come occultato; è diventato occulto (nel frattempo, occorre dire, c’è stato quel passaggio chiave che è l’assassinio di J.F. Kennedy. Una pervasiva paranoia sta mettendo solide radici. Il tema è caro a Pynchon; e, a ben vedere, è presente nel cinema di Anderson sin dai primi film).
Ne “Il petroliere” si scontravano due poteri fondati entrambi su una potente ideologia: il potere del magnate, fondato sulla promessa della prosperità, e quello del prete, basato su promesse spirituali. Due poteri a vocazione totalitaria che mal si tolleravano e non accettavano subordinazione reciproca, pur avendo bisogno l’uno dell’altro.
“The master” compiva un complesso scavo dentro i rapporti di forza, dipendenza, dominio e sudditanza psicologica. Quasi in funzione di giuntura fra il film che segue e quello che precede, raccontava il confronto e lo scontro fra un persuasore e il suo destinatario prescelto. Non è un caso se lo stesso attore, Joaquin Phoenix, che interpreta il ruolo del soggetto manipolato in “The master”, è protagonista assoluto in “Vizio di forma”. In “Vizio di forma” manca uno scontro tra due soggetti. Al centro c’è solo Doc Sportello: attorno a lui tutto sfugge. Nell’ultima inquadratura, il suo volto sembra illuminato da uno specchietto retrovisore che attrae il suo sguardo, quasi ipnotizzandolo. Non sappiamo cosa lui veda, ma di certo non la vediamo noi: qualunque cosa lo illumini tallonandolo, rimane occultata.
“Vizio di forma” mette in scena il sogno hippie trasfigurato in un incubo: la realtà si è fatta labirintica, come nella percezione distorta dalle droghe. Ne è mimesi la struttura stessa del film, inestricabile come nella prosa di Pynchon. I persuasori sono spariti perché chi detiene il potere non ha più bisogno di profeti, è uscito di scena perché ha messo radici ormai solidissime. E’ la droga lo strumento privilegiato di dominio: mezzo di apparente liberazione, è strumento di subordinazione. Viene suggerito, a un certo punto, che lo stesso cartello che controlla il traffico della droga lucri anche sui centri di disintossicazione. La Golden Fang incarna dunque il ciclo di produzione-consumo che si riproduce all’infinito, il capitalismo che ha raggiunto la sua perfezione. Se la rilettura che fa Anderson degli anni ’60 è questa, sembra prossima all’analisi che ne fece in tempo reale Pasolini: non una rottura con il sistema, quale in effetti non fu, ma neanche un tentativo fallito di rottura che avesse avuto possibilità di successo. Piuttosto, un prodotto del sistema capitalistico, che per riprodursi aveva bisogno delle ideologie, dei miti, delle utopie di una generazione che è stata poi mitizzata. Anderson la rappresenta come il falso movimento di una dialettica fallata da un vizio intrinseco.