Pillole di cinema

Il “Neruda” di Larrain, tra Borges e Tarantino

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neruda-pablo-larrainIn “Neruda” di Pablo Larrain si percepiscono echi di Borges. L’intrigo poliziesco rimanda ai labirinti e ai giochi di specchi metanarrativi di molti racconti del gigante argentino (“Il giardino dei sentieri che si biforcano”, in particolare; ma anche “Tema del traditore e dell’eroe”), evocato già da Lisandro Alonso nei suoi film, specie in “Jauja“. E in “Neruda” l’eco di Borges si coniuga a un’attenzione per il cinema di genere – per il poliziesco, evidentemente – inedita per Larrain, in cui, man mano che il film procede verso una sezione finale quasi astratta, i personaggi acquistano coscienza di sé in quanto personaggi, presi in una trama di cui sono solo pedine: e questo, unito al gioco scoperto con i generi classici (il western, il noir), non può non ricordare qualcuno che apparentemente sta agli antipodi di Borges: Quentin Tarantino. Anche le manipolazioni che Larrain opera sulla Storia ricordano la disinvoltura con cui Tarantino la riarrangia a uso proprio. Lo scarto, evidentemente, sta nei modi: Tarantino agisce in un modo divertito cui (solo apparentemente) è bandita ogni riflessione di matrice intellettuale; Larrain opera in un contesto più tradizionalmente “autoriale”. Eppure il suo “Neruda” assume e rielabora stilemi postmoderni (il narratore inattendibile, ad esempio), memore “anche” di Tarantino, portandoli fuori da un contesto esclusivamente metacinematografico e provando a fare i conti – come da sempre nel proprio cinema, ma ora da una nuova prospettiva – con la Storia del proprio Paese (ancora una volta, è la stessa operazione che si sforza di fare, diversamente ma non poi così tanto, Tarantino).

Voto: forse superiore al 9, in attesa di una nuova visione.

EDIT: alla seconda visione il voto è 10 (pietra miliare)

Recuperi #7. TOKYO-GA, Wim Wenders (1985).

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tokyo-gaAggiunto nel data base degli “altri capolavori”, il film “Tokyo-Ga” (1985) di Wim Wenders, corredato da una scheda critica con riferimenti a Herzog, Pasolini, oltre che, naturalmente, a Yasujiro Ozu:

“Come dev’essere un documentario per essere davvero grande cinema (questo è uno dei più belli della storia del cinema): non tradire l’approccio personale e, partendo dall’intento di indagare la realtà, esser disposto a perdersi in essa.
Wenders è grandissimo quando quello che trova non corrisponde a quello che cerca, e – per quanto vagamente deluso, come in questo caso – sa meravigliarsi di quello che trova: non lo sminuisce, se ne lascia conquistare.
In questo è diverso il suo approccio, rispetto a quello di …continua a leggere.

Recuperi #6. PRINCIPESSA MONONOKE, Hayao Miyazaki (1997).

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MononokeAggiunto nel data base degli “altri capolavori”, il film “Principessa Mononoke” (1997) di Hayao Miyazaki, corredato da una scheda critica con riferimenti anche a Terrence Malick:

Pellicola chiave nell’opera di Miyazaki, film covato per anni, immenso successo di pubblico in Giappone, “Mononoke Hime” – anche se nel cuore degli appassionati si è imposto “La città incantata” – è probabilmente il film più rappresentativo della poetica del Maestro. Quello in cui, con maggior profondità e complessità, con maggior ricchezza di sfumature e di registri narrativi, è dispiegato il tema del conflitto fra natura e civilizzazione umana. E’ anche il solo film in cui Miyazaki …continua a leggere.

Recuperi #5. ONIBABA, LE ASSASSINE, Kaneto Shindo (1964).

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onibaba-11Aggiunto nel data base degli “altri capolavori”, il film ONIBABA di K. Shindo (1964), corredato da una breve scheda critica:

La prima parte di “Onibaba – le assassine” è un’angosciosa allegoria (magnifica, per essenzialità) di un’umanità che più hobbesiana non si può (lo stato di natura rousseuviano appare quanto mai una favola per bimbi), in cui due donne, lasciate sole dagli uomini partiti per una guerra senza luogo e senza tempo, uccidono …continua a leggere.

Recuperi #4. L’IDIOTA di Akira Kurosawa (1951).

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idiotaAggiunto nel data base degli “altri capolavori”, il film L’IDIOTA di A. Kurosawa (1951), corredato da una scheda critica:

La trasposizione di un capolavoro della letteratura è una scommessa difficilissima; ben che vada, si riesce a restituire un frammento della grandezza dell’opera originaria. Più si è fedeli, maggiore è il rischio di un bignami recitato; più ci si scosta, maggiore è il rischio di deturparne la grandezza. “L’idiota” di Kurosawa è l’eccezione a questa regola.
E tanto maggiore era la sfida, quanto più si considera che “L’idiota” di Dostoevskij è un’opera che ruota attorno a una figura …continua a leggere.

recuperi #3. MAX MON AMOUR di Nagisa Oshima (1986).

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max amore mioAggiunto nel nuovo data base dei Registi, il film MAX MON AMOUR di N. Oshima (1986), corredato da una scheda critica:

Sorprendente sotto diversi punti di vista. Anzitutto, non è un film d’autore “classico”. Come sottolinea Jean-Claude Carrière (co-sceneggiatore di questo film, celebre per essere il co-sceneggiatore di alcuni degli ultimi capolavori di Bunuel), solo una certa idiozia critica insiste a inscatolare le opere firmate da un regista-autore nella poetica solo e solamente di quell’autore. Ora, l’incontro fra Carrière e Oshima ha prodotto un film “di Oshima” in parte molto diverso dal resto dell’opera di Oshima. Ma è un film …continua a leggere.

recuperi #2. L’IMPERO DEI SENSI di Nagisa Oshima (1976).

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ecco_impero_sensiAggiunto nel data base degli “altri capolavori”, il film ECCO L’IMPERO DEI SENSI di N. Oshima (1976), corredato da una scheda critica:

A fare di questo film – per la sua epoca più estremo di “Ultimo tango” o “Arancia meccanica” – un indiscutibile capolavoro della cinematografia mondiale non basta l’estenuata e rigorosissima messa in scena, sempre di altissima fattura e perfezione estetica. Se si trattasse semplicemente di questo, staremmo dalle parti di Borowczyk (grande esteta, e autore negli stessi anni ’70 di film molto espliciti). Non è estraneo al film neppure un discorso sociale (è un film politico, come tutto Oshima: lo vedremo tra poco). Ma c’è qualcos’altro …continua a leggere.

recuperi #1. La MEDEA di Lars Von Trier (1987).

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medeaAggiunto nel data base degli “altri capolavori”, il film MEDEA di Lars Von Trier (1987), corredato da una scheda critica:

La chiave di lettura sta nella didascalia finale: “la vita umana è un cammino nel buio dove solo un dio può trovare la via. Ché quello che nessuno osa credere, Dio può farlo accadere“. Un miracolo, dunque. E quale miracolo mai è accaduto a Medea? Son forse risorti i suoi figli? E’ sceso un dio a fermarle la mano, come ad Abramo su Isacco?
Non sembra. Eppure Von Trier …continua a leggere

“Hungry hearts” di Saverio Costanzo: della claustrofobia dell’utero.

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hungry_heartsCostanzo disegna vite chiuse in gabbia, gabbie che sembrano partorite dalla mente di un personaggio e invece derivano dai nodi irrisolti tra il personaggio e chi lo circonda.

Mina passa da una gravidanza non desiderata a una dedizione totalizzante e patologica per il bambino. Il marito Jude precipita suo malgrado nella tela di ragno in cui lei ha trasformato le loro vite segregate. Lei dominata da una “femminile” irrazionalità, lui depositario della luce della ragione? Il film è tutt’altro che manicheo come sembra. Il razionalismo di Jude è progressivamente messo in dubbio, e inaspettatamente ci troviamo a empatizzare con Mina: nonostante l’insostenibilità delle sue posizioni, c’è qualcosa di storto nell’incomprensione di Jude. Il male si annida nel personaggio della suocera, messo bene a fuoco da Mina nell’inconscio sin dal giorno delle nozze. Il ritornare del figlio alla madre è segno della claustrofobia basilare: quella dell’utero. Una casa respingente, carica di sinistri trofei, e un sogno premonitore fanno il resto, verso un finale forse un po’ troppo tagliato con l’accetta. Resteranno vividi quei tristi irrimediabili tramonti sulla spiaggia di Coney Island, con i protagonisti ormai sconfitti.

Il film ha evidenti motivi di pregio nella messa in scena, claustrofobica sin dalla prima sequenza. La mano di un autore che parla anzitutto per immagini si vede nell’uso sapiente del long take e del grandangolo. Lo stile ricalca la paranoia di Mina, l’acme è raggiunto nella parte centrale, poi placarsi poi nella gelida deriva finale. Ha ragione chi scorge un omaggio a Polanski – non necessariamente quello di “Rosemary’s baby” (che è il rimando più ovvio) – così come ne “La solitudine dei numeri primi” erano anche ingombranti i rimandi a Kubrick.

Proprio la classe di Costanzo, la sua eccentricità nel panorama italiano, è anche il suo limite più grande: quando si emanciperà dai suoi grandi modelli, forse potrà regalarci un film molto importante, capace di imporsi anche per ciò che racconta e non, principalmente, per come lo racconta.

Voto 7

“Big Eyes”: tra sguardi malinconici di bimbi orfani e una donna incompresa, il cinema di Burton rimane popolato di freaks.

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BIG EYESE alla fine rimangono impressi soprattutto quei grandi occhi tristi, di tanti bimbi troppo a lungo rimasti orfani della propria madre, che non chiedevano altro se non di vedere riconosciuta la propria vera filiazione. Sono loro i “freaks” burtoniani, gli esseri diversi che catturano l’attenzione di tutti, ma che nessuno comprende e per questo sono irrimediabilmente tristi, condannati alla loro incompresa stranezza. Mi è parso evidente l’aggancio alla poetica di Burton in un film che di burtoniano ha obiettivamente poco, e per questo è stato apprezzato meno di quanto meritasse. Da più qualche anno Burton appare un po’ in crisi, desideroso di liberarsi dei propri stereotipi ma incerto sulla strada da prendere (ma “Dark shadows” è un gioiellino sottovalutato). Da apprezzare quindi il tentativo di emanciparsi, il coraggio di innovarsi, pur riconoscendo gli esiti in parte modesti dell’auto-rilancio di un autore che è stato grande altrove.

Ciò detto “Big Eyes” – ispirato a una vicenda reale paradigmatica sotto il profilo sociologico – merita di esser visto: una storia di riscatto, con la quale empatizzare, più particolare di quanto sembra a prima vista. “Riscatto” non solo femminile, non solo di un individuo. A essere riscattata è la verità in quanto tale, la verità dell’arte, quella della finzione. Cioè la sola che non può, non deve restare occultata. Perché è nella finzione dell’arte che si cela l’autenticità. E l’autenticità dei bambini tristi di Margaret Keane è quella di essere figli suoi e della sua malinconia di donna e di madre. Ovviamente quegli occhi, sgranati e senza lacrime, non sono che i suoi. E’ lei la donna diversa, dotata di una sensibilità artistica e afflitta anche per questo da complessi di colpa e di inadeguatezza, preda di incomprensioni: insomma un corpo estraneo nella superficie degli anni ’50, satura di ipocriti cromatismi. Eh no, anche stavolta Burton non si è liberato dei suoi personalissimi “freaks”, specchio profondo del suo intimo.

Voto 6