Hungry hearts
“Hungry hearts” di Saverio Costanzo: della claustrofobia dell’utero.
Costanzo disegna vite chiuse in gabbia, gabbie che sembrano partorite dalla mente di un personaggio e invece derivano dai nodi irrisolti tra il personaggio e chi lo circonda.
Mina passa da una gravidanza non desiderata a una dedizione totalizzante e patologica per il bambino. Il marito Jude precipita suo malgrado nella tela di ragno in cui lei ha trasformato le loro vite segregate. Lei dominata da una “femminile” irrazionalità, lui depositario della luce della ragione? Il film è tutt’altro che manicheo come sembra. Il razionalismo di Jude è progressivamente messo in dubbio, e inaspettatamente ci troviamo a empatizzare con Mina: nonostante l’insostenibilità delle sue posizioni, c’è qualcosa di storto nell’incomprensione di Jude. Il male si annida nel personaggio della suocera, messo bene a fuoco da Mina nell’inconscio sin dal giorno delle nozze. Il ritornare del figlio alla madre è segno della claustrofobia basilare: quella dell’utero. Una casa respingente, carica di sinistri trofei, e un sogno premonitore fanno il resto, verso un finale forse un po’ troppo tagliato con l’accetta. Resteranno vividi quei tristi irrimediabili tramonti sulla spiaggia di Coney Island, con i protagonisti ormai sconfitti.
Il film ha evidenti motivi di pregio nella messa in scena, claustrofobica sin dalla prima sequenza. La mano di un autore che parla anzitutto per immagini si vede nell’uso sapiente del long take e del grandangolo. Lo stile ricalca la paranoia di Mina, l’acme è raggiunto nella parte centrale, poi placarsi poi nella gelida deriva finale. Ha ragione chi scorge un omaggio a Polanski – non necessariamente quello di “Rosemary’s baby” (che è il rimando più ovvio) – così come ne “La solitudine dei numeri primi” erano anche ingombranti i rimandi a Kubrick.
Proprio la classe di Costanzo, la sua eccentricità nel panorama italiano, è anche il suo limite più grande: quando si emanciperà dai suoi grandi modelli, forse potrà regalarci un film molto importante, capace di imporsi anche per ciò che racconta e non, principalmente, per come lo racconta.
Voto 7