Mese: dicembre 2014

I 10 film più belli visti nel 2014

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E’ stata un’annata ottima – forse eccezionale. Non per il cinema italiano, e nemmeno tanto per il cinema di fiction europeo o statunitense (che pure, specie quest’ultimo, ha visto diversi autori esprimersi al meglio rispetto ad anni meno recenti: penso, anzitutto, a Scorsese e Wes Anderson). Cannes ci ha regalato una Palma d’oro di grande valore, premiando un autore importante come Ceylan che ha firmato il suo film più complesso e maturo: il più letterario, ma non per questo meno vivido a livello di immagine. Tuttavia l’annata è stata tanto ricca che questa Palma d’oro non c’entra, nella Top10.

E’ stato anzitutto l’anno di due film meravigliosi – pellicole in verità del 2013 – che costituiscono forse i capolavori-congedo dei due maestri dello Studio Ghibli, Miyazaki e Takahata. Credo davvero che quello di Miyazaki possa essere il suo ultimo film: è un vero testamento poetico, quello in cui il gigante dell’animazione giapponese ha messo tutto se stesso per scavare a fondo – con un taglio realistico stupendo, insolito per le sue corde – in quei meandri della coscienza dove rimorde che la creazione frutto del proprio sogno sia asservita ai signori della guerra, traducendosi in null’altro che strumento di distruzione, ma dove il sogno è costretto a una resa dei conti anche con la vita privata, e dove la felicità può non essere di casa. Che Miyazaki abbia affrontato tali temi restando lirico e sublime, è ciò che fa del suo ultimo film un capolavoro immortale che ricorda l’Ozu migliore. Il film di Takahata è una fiaba che potrebbe appartenere a tutte le civiltà: contiene in sé archetipi mitologici appartenenti a mondi lontani, precipitati in’opera d’arte universale che trascende la propria matrice buddhista (evidente specie nel finale). Un film magnifico, di ricchezza e profondità pari alla raffinata squisitezza visiva; tanto denso e stratificato (e meritevole di molteplici visioni), quanto semplice al punto da essere comprensibile a un bimbo, su un piano pre-razionale.

Dietro questi due giganti, spicca l’importanza dei documentari. Il 2014 conferma come il documentario sia un terreno su cui il cinema a venire potrà costruire il proprio divenire. Questo è vero soprattutto per i documentari d’impianto più sperimentale, e personale, come il capolavoro di Pahn che “ricostruisce” (letteralmente) il genocidio della Cambogia dei Khmer rossi, alla ricerca di una memoria visiva, che da individuale sia capace di farsi testimonianza collettiva pur in mancanza di fonti documentali. O come la conclusione del vertiginoso dittico di Oppenheimer sul genocidio indonesiano degli anni ’60, dove lo sguardo del regista interroga gli sguardi muti degli assassini, che si osservano negli occhi di un superstite. Questo del film più “classico” del dittico, è un altro modo di affrontare il rapporto tra sguardo e memoria, mentre il cinema provoca la realtà nel suo mettersi in scena. Ma l’assunto riguardo l’importanza del documentario vale anche per documentari dall’impianto più classico, come il meraviglioso film di Wenders su Salgado. Che la realtà fosse l’avvenire del cinema, Wenders l’aveva capito da giovane, quando girava film sulla fine della narrazione e sull’esaurimento delle storie. Nella sua ultima pellicola la regia – posta al servizio della gigantesca potenza visiva delle fotografie di Salgado – si rivela profondamente orientata a fornirci il vivido ritratto di Salgado come uomo, prima ancora che come fotografo. E le ultime opere di Salgado – il progetto “Genesi” e soprattutto l’Istituto Terra – sono moniti luminosi per il futuro del pianeta, e dell’umanità stessa, con i quali si conclude un film profondamente toccante, profondamente umanista, carico di forza positiva.

Lav Diaz ha ottenuto a Locarno il giusto riconoscimento per il suo cinema estremo e intrinsecamente militante (esteticamente, eticamente, politicamente), mentre Godard (altro regista militante: esteticamente, politcamente, intellettualmente) ci lancia un monito sull’attuale povertà di comunicazione, che vuole però anche dimostrare quante siano ancora le potenzialità inesplorate del linguaggio cinematografico (facendo ricorso tra l’altro a un uso geniale e spiazzante del 3D).

Solo tre posti residui per film di fiction, di cui due soli occidentali. Dagli USA arriva la parabola con cui Spike Jonze ha voluto non tanto descrivere un mondo di relazioni umane impoverite, quanto piuttosto esaltare l’importanza della persistenza della memoria emotiva come linfa vitale delle Relazioni, di qualsiasi natura esse siano. Dalla Danimarca, dopo anni di depressione nichilista a tratti opaca, Von Trier torna ad affidare a un’eroina l’onere di una paradossale liberazione di genere: il suo cinema non cessa di apparire disturbante e contraddittorio, ma la sua ultima opera vola alta, sorretta nonostante la durata da grande ispirazione sia in fase di scrittura sia di messa in scena, e sfiorando in alcuni momenti il Bergman di “Sussurri e grida”.

Infine, la distopia di Bong Joon-Ho, tratta da una graphic novel francese di qualche decennio fa: non vale, a mio avviso, soltanto per il talento visionario del regista coreano, quanto per la schietta radicalità del messaggio politico che solo un autore orientale poteva esprimere così brutalmente e frontalmente. Un messaggio davvero fondamentale in un secolo come il nostro, in cui il concetto di democrazia si sta rivelando nelle sue sfumature più mistificatorie. Non esiste potere né ordine sociale che non si regga sulla prevaricazione e sul dominio – possiamo credere in Rousseau, ma sullo stato di natura aveva ragione Hobbes. Non perciò siamo tenuti ad accettare il Leviatano quale unico rimedio. Ma, ecco: non prendiamoci in giro.

Qui sotto, la lista in ordine di preferenza. I caratteri arancioni stanno per i link alle mie recensioni (un’avvertenza: i voti espressi in alcune di esse possono risentire in taluni casi dell’entusiasmo “a caldo” del dopo-visione: l’invito è ad approfondire anzitutto i testi).

1. Si alza il vento” di Hayao Miyazaki

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2. “La storia della principessa splendente” di Isao Takahata

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3. “L’immagine mancante” di Rithy Pahn

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4. From what is before” di Lav Diaz

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5. “Lei” di Spike Jonze

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6. Addio al linguaggio” di Jean Luc Godard

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7. “Il sale della terra” di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado

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8. “The look of silence” di Joshua Oppenheimer

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9. “Nymphomaniac” di Lars Von Trier

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10. “Snowpiercer” di Bong Joon-Ho

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Con ADDIO AL LINGUAGGIO, Jean-Luc Godard ci invita a tornare a dialogare, per ricomporre i pezzi di un mondo dove persino lo sguardo non comunica più con se stesso.

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GODARDJean-Luc Godard, maestro della Nouvelle Vague, impertinente e impenitente genio della sperimentazione visiva e intellettuale, sforna a 84 anni un provocatorio “Addio al linguaggio” che, anziché opera di chiusura e addio come da titolo, è film che apre e scardina. A cominciare da un uso del 3D che, se non potrà certo essere preso a modello e imitato alla lettera, dimostra però quante possano essere le possibilità celate e ancora da inventare (in-venio, rinvenire) di questa tecnica e dunque, per esteso, del linguaggio cinematografico tutto.

“Addio al linguaggio” (che, sia chiaro, non ha una trama: come tutta o quasi l’opera o quasi di Godard dai tardi anni ’60 in poi, è antinarrativo per statuto) è film tutto incentrato sui temi del doppio e della separazione. La pellicola ha un’idea centrale molto forte …continua a leggere

“Lo Hobbit”, terzo episodio: una battaglia poco epica. Meglio evitarla.

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hobbitSecondo una logica da serie televisiva replicata con naturalezza dalle serie cinematografiche, l’incipit del film vede il drago Smaug, libratosi in volo alla fine dell’episodio precedente, mettere a fuoco Pontelagolungo. Dura un buon quarto d’ora ed è la parte migliore del film.
Com’è noto, il progetto “Lo Hobbit” prevedeva inizialmente due film, di cui quelli che son diventati il secondo e il terzo episodio avrebbero dovuto costituire unitariamente il secondo. La trasformazione in trilogia ha ragioni non esclusivamente commerciali: il parallelismo strutturale della vicenda con quella del Signore degli Anelli si trova già nell’opera di Tolkien. Ma l’esiguità della parte di romanzo corrispondente a questo terzo capitolo (poco più di una cinquantina di pagine) avrebbe davvero difficilmente potuto fornire il respiro sufficiente a sostenere un unico film. “La battaglia delle cinque armate” non possiede l’afflato che ci auguravamo, dopo che il secondo capitolo, “La desolazione di Smaug”, ci era parso più convincente del primo, slabbrato, prolisso e inconcludente. Purtroppo, invece, “La battaglia delle cinque armate”, pur essendo il più breve dei sei film di Jackson tratti da Tolkien (e vorrà dire qualcosa!), finisce per annoiare.

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Voto 5

“Due giorni, una notte” dei fratelli Dardenne. La responsabilità morale della Scelta.

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COTILLARD Il cinema dei fratelli Dardenne si è sempre contraddistinto per l’intima sostanza etica racchiusa sotto una scorza di impegno civile. Il loro tema fondamentale, centrale sin dai tempi del bellissimo esordio del 1996 “La promessa”, è il tema della Scelta. La Scelta che implica responsabilità, impegno morale. Se i contesti in cui ambientano i loro film sono spesso stati di degrado sociale, e la società verso la quale hanno sempre puntato l’obiettivo è quella dei ceti più umili, il loro interesse non sta nel denunciare le iniquità sociali, i soprusi dei più forti – che pure ci sono sempre, nel loro cinema. Ma spesso i più forti rimangono ai margini (come anche in questo loro ultimo film), decentrati rispetto al cuore del problema, la Scelta. Ci si imbatte nella scelta morale qualunque sia la condizione economico-sociale in cui ci troviamo. E se la sorte ci ha già vessato, non ci si può sottrarre per questo di certo all’obbligo di scegliere. In “Due giorni, una notte”, di fronte alla Scelta si trovano tutti i colleghi di Sandra. E’ quasi un sondaggio, il film, condotto attraverso interviste che implicano una scelta diretta, concreta, immediata. Al posto di ciascuno dei colleghi ci potremmo essere noi. E, a ogni tappa di questo calvario, ci chiediamo come reagiremmo noi,

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MOMMY. Costretta nel formato 1:1, la vitalità di Dolan pulsa più indomita che mai.

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MOMMYMommy” è il quinto film dell’enfant prodige del cinema canadese Xavier Dolan (autore a tutto tondo, che i film se li scrive e spesso – non in questo caso – li interpreta).  “Mommy” – prima opera di Dolan a esser distribuita in Italia – si è aggiudicato il Gran Prix della giuria all’ultimo festival di Cannes, ex aequo con “Adieu au language”, l’ultima, sperimentale provocazione (in 3D) di un autore che giovane lo è rimasto dentro: l’ottantaquattrenne Jean Luc Godard. Ma se Godard, che non ha mai smesso di sperimentare, lo fa sorvegliando le sue creazioni con il piglio rigoroso dell’intellettuale, la peculiarità di Dolan sta nel suo irrefrenabile temperamento emotivo. Una foga priva di freni e di pudore, avida di vita. Il cinema di Dolan è al contempo ingenuo e geniale, specialmente nell’uso delle musiche, in un’accondiscendenza alla cultura visiva delle clip video che invece di apparire kitsch risulta squisitamente genuina.

Con “Mommy“, Dolan, classe 1989, raccontando del tormentato rapporto con la propria madre Diane da parte di un quindicenne affetto da deficit di attenzione, Steve, è tornato sulla materia del suo primo film – scritto a 16 anni e diretto a 20 – “J’ai tué ma mère” (2009). Fu il suo esordio alla regia, e lì vi recitava anche, nelle vesti del protagonista. Nocciolo del film, scopertamente autobiografico, era il rapporto edipico tra un sedicenne e sua madre. Se nel film d’esordio Dolan decise appunto d’interpretare il ruolo del figlio, adesso …continua a leggere…