Pahn
I 10 film più belli visti nel 2014
E’ stata un’annata ottima – forse eccezionale. Non per il cinema italiano, e nemmeno tanto per il cinema di fiction europeo o statunitense (che pure, specie quest’ultimo, ha visto diversi autori esprimersi al meglio rispetto ad anni meno recenti: penso, anzitutto, a Scorsese e Wes Anderson). Cannes ci ha regalato una Palma d’oro di grande valore, premiando un autore importante come Ceylan che ha firmato il suo film più complesso e maturo: il più letterario, ma non per questo meno vivido a livello di immagine. Tuttavia l’annata è stata tanto ricca che questa Palma d’oro non c’entra, nella Top10.
E’ stato anzitutto l’anno di due film meravigliosi – pellicole in verità del 2013 – che costituiscono forse i capolavori-congedo dei due maestri dello Studio Ghibli, Miyazaki e Takahata. Credo davvero che quello di Miyazaki possa essere il suo ultimo film: è un vero testamento poetico, quello in cui il gigante dell’animazione giapponese ha messo tutto se stesso per scavare a fondo – con un taglio realistico stupendo, insolito per le sue corde – in quei meandri della coscienza dove rimorde che la creazione frutto del proprio sogno sia asservita ai signori della guerra, traducendosi in null’altro che strumento di distruzione, ma dove il sogno è costretto a una resa dei conti anche con la vita privata, e dove la felicità può non essere di casa. Che Miyazaki abbia affrontato tali temi restando lirico e sublime, è ciò che fa del suo ultimo film un capolavoro immortale che ricorda l’Ozu migliore. Il film di Takahata è una fiaba che potrebbe appartenere a tutte le civiltà: contiene in sé archetipi mitologici appartenenti a mondi lontani, precipitati in’opera d’arte universale che trascende la propria matrice buddhista (evidente specie nel finale). Un film magnifico, di ricchezza e profondità pari alla raffinata squisitezza visiva; tanto denso e stratificato (e meritevole di molteplici visioni), quanto semplice al punto da essere comprensibile a un bimbo, su un piano pre-razionale.
Dietro questi due giganti, spicca l’importanza dei documentari. Il 2014 conferma come il documentario sia un terreno su cui il cinema a venire potrà costruire il proprio divenire. Questo è vero soprattutto per i documentari d’impianto più sperimentale, e personale, come il capolavoro di Pahn che “ricostruisce” (letteralmente) il genocidio della Cambogia dei Khmer rossi, alla ricerca di una memoria visiva, che da individuale sia capace di farsi testimonianza collettiva pur in mancanza di fonti documentali. O come la conclusione del vertiginoso dittico di Oppenheimer sul genocidio indonesiano degli anni ’60, dove lo sguardo del regista interroga gli sguardi muti degli assassini, che si osservano negli occhi di un superstite. Questo del film più “classico” del dittico, è un altro modo di affrontare il rapporto tra sguardo e memoria, mentre il cinema provoca la realtà nel suo mettersi in scena. Ma l’assunto riguardo l’importanza del documentario vale anche per documentari dall’impianto più classico, come il meraviglioso film di Wenders su Salgado. Che la realtà fosse l’avvenire del cinema, Wenders l’aveva capito da giovane, quando girava film sulla fine della narrazione e sull’esaurimento delle storie. Nella sua ultima pellicola la regia – posta al servizio della gigantesca potenza visiva delle fotografie di Salgado – si rivela profondamente orientata a fornirci il vivido ritratto di Salgado come uomo, prima ancora che come fotografo. E le ultime opere di Salgado – il progetto “Genesi” e soprattutto l’Istituto Terra – sono moniti luminosi per il futuro del pianeta, e dell’umanità stessa, con i quali si conclude un film profondamente toccante, profondamente umanista, carico di forza positiva.
Lav Diaz ha ottenuto a Locarno il giusto riconoscimento per il suo cinema estremo e intrinsecamente militante (esteticamente, eticamente, politicamente), mentre Godard (altro regista militante: esteticamente, politcamente, intellettualmente) ci lancia un monito sull’attuale povertà di comunicazione, che vuole però anche dimostrare quante siano ancora le potenzialità inesplorate del linguaggio cinematografico (facendo ricorso tra l’altro a un uso geniale e spiazzante del 3D).
Solo tre posti residui per film di fiction, di cui due soli occidentali. Dagli USA arriva la parabola con cui Spike Jonze ha voluto non tanto descrivere un mondo di relazioni umane impoverite, quanto piuttosto esaltare l’importanza della persistenza della memoria emotiva come linfa vitale delle Relazioni, di qualsiasi natura esse siano. Dalla Danimarca, dopo anni di depressione nichilista a tratti opaca, Von Trier torna ad affidare a un’eroina l’onere di una paradossale liberazione di genere: il suo cinema non cessa di apparire disturbante e contraddittorio, ma la sua ultima opera vola alta, sorretta nonostante la durata da grande ispirazione sia in fase di scrittura sia di messa in scena, e sfiorando in alcuni momenti il Bergman di “Sussurri e grida”.
Infine, la distopia di Bong Joon-Ho, tratta da una graphic novel francese di qualche decennio fa: non vale, a mio avviso, soltanto per il talento visionario del regista coreano, quanto per la schietta radicalità del messaggio politico che solo un autore orientale poteva esprimere così brutalmente e frontalmente. Un messaggio davvero fondamentale in un secolo come il nostro, in cui il concetto di democrazia si sta rivelando nelle sue sfumature più mistificatorie. Non esiste potere né ordine sociale che non si regga sulla prevaricazione e sul dominio – possiamo credere in Rousseau, ma sullo stato di natura aveva ragione Hobbes. Non perciò siamo tenuti ad accettare il Leviatano quale unico rimedio. Ma, ecco: non prendiamoci in giro.
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Qui sotto, la lista in ordine di preferenza. I caratteri arancioni stanno per i link alle mie recensioni (un’avvertenza: i voti espressi in alcune di esse possono risentire in taluni casi dell’entusiasmo “a caldo” del dopo-visione: l’invito è ad approfondire anzitutto i testi).
1. “Si alza il vento” di Hayao Miyazaki
2. “La storia della principessa splendente” di Isao Takahata
3. “L’immagine mancante” di Rithy Pahn
4. “From what is before” di Lav Diaz
5. “Lei” di Spike Jonze
6. “Addio al linguaggio” di Jean Luc Godard
7. “Il sale della terra” di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado
8. “The look of silence” di Joshua Oppenheimer
9. “Nymphomaniac” di Lars Von Trier
10. “Snowpiercer” di Bong Joon-Ho