Ghibli
The cat returns (La ricompensa del gatto, 2002)
Haru, adolescente impacciata e sempre in ritardo, sin da piccola ha una speciale confidenza con i gatti. Una mattina salva un gatto che stava per essere investito per strada: per ricompensarla, il re dei gatti decide di darla in sposa al gatto salvato, che è proprio il figlio del re. Da quel momento, lo scopo di Haru sarà di liberarsi dal mondo in cui viene risucchiata, per riappropriarsi della propria umanità (che sta lentamente soccombendo, visto che si comincia a trasformare parzialmente in gatta).
Evidente le affinità di questo piccolo progetto Ghibli del 2002 con “La città incantata”, capolavoro miyazakiano dell’anno precedente, in cui i genitori della protagonista erano stati trasformati in maiali, e la stessa Chihiro per ritrovare la propria libertà doveva rimettere insieme gli ideogrammi del proprio nome. Il graduale passaggio dal mondo reale alla parallela dimensione felina è forse la parte più riuscita del film, per le soluzioni adottate sia a livello… …continua a leggere su OndaCinema.
Top Seven 2015
Per attribuire a un film un valore particolarmente alto, per elevarlo magari al rango di “capolavoro”, sono determinanti le qualità stilistiche, in particolare gli elementi stilisticamente innovativi (soprattutto quando aprono nuovi linguaggi). Non se ne sono visti molti di film di tale spessore, fra quanti distribuiti in Italia nel 2015, e quei pochi (ad es. quello di Wenders menzionato in decima posizione; ma anche il film di Gaudino) non mi sono parsi di valore altrettanto importante di altri, magari stilisticamente più convenzionali, come alcuni di questi sette. Per quanto imprescindibile, lo stile va calibrato alla sostanza (beninteso non c’è sostanza senza stile), ed esistono capolavori il cui stile può non eguagliare esteticamente la bellezza di altri film, che capolavori non sono. …Tutto questo per dar conto, soprattutto, dei primi due posti: opere esteticamente senz’altro più convenzionali di quelle che pongo al 7° e al 6°, ad esempio (in particolare Moretti non ha mai avuto un senso straordinario della messa in scena; malgrado ciò non può non considerarsi l’autore italiano determinante della sua generazione).
Procediamo.
7. FRANCOFONIA di Alexandr Sokurov
L’arte e il potere. E le inesauribili implicazioni del loro rapporto. In “Francofonia” Sokurov affronta, con modalità quasi godardiane, uno dei nuclei portanti della propria poetica. Il potere che calpesta l’arte è lo stesso che ne ha bisogno; l’arte, costretta a tentare di sopravvivere alle intemperie della Storia, dalle sue vicissitudini trae alimento. Anche dalle più terribili: e proprio il cinema di Sokurov è lì a dimostrarlo. Il suo ultimo film non è (per alcuni) tra i suoi capolavori, ma a me pare cristallino nell’esporre i suoi temi, e potrei quasi preferirlo, soggettivamente, ad “Arca russa“, la cui perfezione tecnica ha una freddezza e una compostezza inumane, che mi hanno sempre quasi inibito. Vedi recensione per Ondacinema (link dal titolo).
6. BELLA E PERDUTA di Pietro Marcello
I film di Sokurov e Marcello hanno alcune affinità ai miei occhi: e al film del Grande Maestro antepongo, in questo gioco che è la classifica, l’imperfezione (voluta, come dimostra il ricorso ad esempio anche a pellicole scadute) di Pietro Marcello, che solo in superficie è meno “sublime”. “Bella e perduta” (un palazzo in rovina, sineddoche dell’Italia), nel suo candore, è film più genuino, autenticamente immaginifico. Dall’attrito tra il reale e la libertà creativa dell’immaginazione scaturiscono oggi film davvero essenziali per il futuro della settima arte: film poetici anzichè prosaici, opere scisse da una logica narrativa, liriche, che partono dalla concretezza della realtà per ricamarci sopra una fantasticheria dell’autore, che magari fiorisce in corso d’opera come è successo a Pietro Marcello. Qui davvero la non-perfezione è una ricchezza.
5. QUANDO C’ERA MARNIE di Hiromasa Yonebayashi
Spoiler alert. Due volte l’ho vista e due volte mi ha commosso, questa storia di una ragazza che si prepara alla vita confrontandosi con la propria nonna da ragazza. Quant’è bello il modo in cui qui si immagina di far rivivere a una nipote, in autentica empatia, i sentimenti provati dalla propria nonna mai conosciuta, come fosse una coetanea e un’amica. Per suggestioni, siamo dalle parti del mio adorato “La doppia vita di Veronica” di Kieslowski. Certo, la regia è un’altra cosa. Ma è pur sempre un Ghibli – auguriamoci aperto sul futuro – e le qualità di cui la casa è garanzia ci sono tutte.
4. L’ALTRA HEIMAT di Edgar Reitz
L’universo di Reitz, inesauribile nelle sue germinazioni, ha partorito un capolavoro che quasi eguaglia la grandezza del primo Heimat (pur mantenendosi inevitabilmente lontano dall’enorme valore della “Seconda Heimat”, ovvero dell’opera cinematografica più vicina alla Recherche di Proust). Questa storia di due fratelli, dei loro destini incrociati, possiede evidentemente qualcosa di archetipico, che Reitz declina in un film ricco di armonia e di suggestioni, di inarrivabile sapienza drammaturgica e scenografica. Si veda una delle dissolvenze incrociate più lunghe della storia del cinema, o la squisita semplicità dei tocchi di colore, o ancora i delicati ‘voli’ della macchina da presa sull’erba alta dei prati. Reitz dialoga con i più grandi, non solo del cinema, cui dà del Tu.
3. FOXCATCHER di Bennet Miller
“Foxcatcher” è il film americano live-action migliore di questi ultimi due anni. Con una messa in scena strepitosa (Miller, al terzo film, è il regista statunitense più interessante e promettente della sua generazione), questo film che stordisce, dall’andamento ipnotico, è una formidabile tragedia contemporanea incentrata sull’individualismo e sul plagio, sul mito del successo e sullo sgretolarsi, sull’implodere delle ambizioni e delle ossessioni, sotto la forza di immane condizionamenti psicologici, primo dei quali quello edipico (Miller sfiora tematiche comuni a PT Anderson, si confronti questo film a “The master“).
2. MIA MADRE di Nanni Moretti
Una riflessione profondissima sull’autenticità: sul bisogno di una finzione narrativa che sia aderente anzitutto all’autenticità, piuttosto e prima ancora che alla “realtà”. Piuttosto che limitarsi a denunciare un disorientamento, l’ultimo film di Moretti vuole scuoterci dall’opacità, stimolare la lucidità. Farci dismettere le maschere, disarmare la finzione; recuperare – appunto – l’autenticità. “Mia madre” è il capolavoro del Moretti post-Apicella, superiore a “La stanza del figlio” (e c’entra, naturalmente, l’autenticità del dato biografico). Vedi, per approfondimenti, la recensione per Ondacinema (link dal titolo).
1.INSIDE OUT di P. Docter, R. del Carmen
E’ il grande capolavoro della Pixar. Superiore a tutti quanti i lungometraggi della casa per profondità, ricchezza, e armonia di resa: superiore anche al miliare “Toy Story” (che gli è più importante esclusivamente per ragioni storiche e tecniche). “Inside Out” è compatto e senza cali: ad esempio, la prima parte di “Wall E” e l’inizio di “Up” sono memorabili, ma entrambi i film faticano ad arrivare alla fine mantenendosi a quei livelli. “Inside Out“, invece, mentre procede cresce. E, come scrive LongTake nella sua bella scheda, “il messaggio finale, che insegna come la Gioia non possa esistere senza la Tristezza, è di commovente, vibrante verità. Un’esperienza esistenziale, più che cinematografica, assolutamente imperdibile. Una tappa nella storia del cinema, d’animazione e non”.
I 10 film più belli visti nel 2014
E’ stata un’annata ottima – forse eccezionale. Non per il cinema italiano, e nemmeno tanto per il cinema di fiction europeo o statunitense (che pure, specie quest’ultimo, ha visto diversi autori esprimersi al meglio rispetto ad anni meno recenti: penso, anzitutto, a Scorsese e Wes Anderson). Cannes ci ha regalato una Palma d’oro di grande valore, premiando un autore importante come Ceylan che ha firmato il suo film più complesso e maturo: il più letterario, ma non per questo meno vivido a livello di immagine. Tuttavia l’annata è stata tanto ricca che questa Palma d’oro non c’entra, nella Top10.
E’ stato anzitutto l’anno di due film meravigliosi – pellicole in verità del 2013 – che costituiscono forse i capolavori-congedo dei due maestri dello Studio Ghibli, Miyazaki e Takahata. Credo davvero che quello di Miyazaki possa essere il suo ultimo film: è un vero testamento poetico, quello in cui il gigante dell’animazione giapponese ha messo tutto se stesso per scavare a fondo – con un taglio realistico stupendo, insolito per le sue corde – in quei meandri della coscienza dove rimorde che la creazione frutto del proprio sogno sia asservita ai signori della guerra, traducendosi in null’altro che strumento di distruzione, ma dove il sogno è costretto a una resa dei conti anche con la vita privata, e dove la felicità può non essere di casa. Che Miyazaki abbia affrontato tali temi restando lirico e sublime, è ciò che fa del suo ultimo film un capolavoro immortale che ricorda l’Ozu migliore. Il film di Takahata è una fiaba che potrebbe appartenere a tutte le civiltà: contiene in sé archetipi mitologici appartenenti a mondi lontani, precipitati in’opera d’arte universale che trascende la propria matrice buddhista (evidente specie nel finale). Un film magnifico, di ricchezza e profondità pari alla raffinata squisitezza visiva; tanto denso e stratificato (e meritevole di molteplici visioni), quanto semplice al punto da essere comprensibile a un bimbo, su un piano pre-razionale.
Dietro questi due giganti, spicca l’importanza dei documentari. Il 2014 conferma come il documentario sia un terreno su cui il cinema a venire potrà costruire il proprio divenire. Questo è vero soprattutto per i documentari d’impianto più sperimentale, e personale, come il capolavoro di Pahn che “ricostruisce” (letteralmente) il genocidio della Cambogia dei Khmer rossi, alla ricerca di una memoria visiva, che da individuale sia capace di farsi testimonianza collettiva pur in mancanza di fonti documentali. O come la conclusione del vertiginoso dittico di Oppenheimer sul genocidio indonesiano degli anni ’60, dove lo sguardo del regista interroga gli sguardi muti degli assassini, che si osservano negli occhi di un superstite. Questo del film più “classico” del dittico, è un altro modo di affrontare il rapporto tra sguardo e memoria, mentre il cinema provoca la realtà nel suo mettersi in scena. Ma l’assunto riguardo l’importanza del documentario vale anche per documentari dall’impianto più classico, come il meraviglioso film di Wenders su Salgado. Che la realtà fosse l’avvenire del cinema, Wenders l’aveva capito da giovane, quando girava film sulla fine della narrazione e sull’esaurimento delle storie. Nella sua ultima pellicola la regia – posta al servizio della gigantesca potenza visiva delle fotografie di Salgado – si rivela profondamente orientata a fornirci il vivido ritratto di Salgado come uomo, prima ancora che come fotografo. E le ultime opere di Salgado – il progetto “Genesi” e soprattutto l’Istituto Terra – sono moniti luminosi per il futuro del pianeta, e dell’umanità stessa, con i quali si conclude un film profondamente toccante, profondamente umanista, carico di forza positiva.
Lav Diaz ha ottenuto a Locarno il giusto riconoscimento per il suo cinema estremo e intrinsecamente militante (esteticamente, eticamente, politicamente), mentre Godard (altro regista militante: esteticamente, politcamente, intellettualmente) ci lancia un monito sull’attuale povertà di comunicazione, che vuole però anche dimostrare quante siano ancora le potenzialità inesplorate del linguaggio cinematografico (facendo ricorso tra l’altro a un uso geniale e spiazzante del 3D).
Solo tre posti residui per film di fiction, di cui due soli occidentali. Dagli USA arriva la parabola con cui Spike Jonze ha voluto non tanto descrivere un mondo di relazioni umane impoverite, quanto piuttosto esaltare l’importanza della persistenza della memoria emotiva come linfa vitale delle Relazioni, di qualsiasi natura esse siano. Dalla Danimarca, dopo anni di depressione nichilista a tratti opaca, Von Trier torna ad affidare a un’eroina l’onere di una paradossale liberazione di genere: il suo cinema non cessa di apparire disturbante e contraddittorio, ma la sua ultima opera vola alta, sorretta nonostante la durata da grande ispirazione sia in fase di scrittura sia di messa in scena, e sfiorando in alcuni momenti il Bergman di “Sussurri e grida”.
Infine, la distopia di Bong Joon-Ho, tratta da una graphic novel francese di qualche decennio fa: non vale, a mio avviso, soltanto per il talento visionario del regista coreano, quanto per la schietta radicalità del messaggio politico che solo un autore orientale poteva esprimere così brutalmente e frontalmente. Un messaggio davvero fondamentale in un secolo come il nostro, in cui il concetto di democrazia si sta rivelando nelle sue sfumature più mistificatorie. Non esiste potere né ordine sociale che non si regga sulla prevaricazione e sul dominio – possiamo credere in Rousseau, ma sullo stato di natura aveva ragione Hobbes. Non perciò siamo tenuti ad accettare il Leviatano quale unico rimedio. Ma, ecco: non prendiamoci in giro.
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Qui sotto, la lista in ordine di preferenza. I caratteri arancioni stanno per i link alle mie recensioni (un’avvertenza: i voti espressi in alcune di esse possono risentire in taluni casi dell’entusiasmo “a caldo” del dopo-visione: l’invito è ad approfondire anzitutto i testi).
1. “Si alza il vento” di Hayao Miyazaki
2. “La storia della principessa splendente” di Isao Takahata
3. “L’immagine mancante” di Rithy Pahn
4. “From what is before” di Lav Diaz
5. “Lei” di Spike Jonze
6. “Addio al linguaggio” di Jean Luc Godard
7. “Il sale della terra” di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado
8. “The look of silence” di Joshua Oppenheimer
9. “Nymphomaniac” di Lars Von Trier
10. “Snowpiercer” di Bong Joon-Ho