migliori film 2015
Top Seven 2015
Per attribuire a un film un valore particolarmente alto, per elevarlo magari al rango di “capolavoro”, sono determinanti le qualità stilistiche, in particolare gli elementi stilisticamente innovativi (soprattutto quando aprono nuovi linguaggi). Non se ne sono visti molti di film di tale spessore, fra quanti distribuiti in Italia nel 2015, e quei pochi (ad es. quello di Wenders menzionato in decima posizione; ma anche il film di Gaudino) non mi sono parsi di valore altrettanto importante di altri, magari stilisticamente più convenzionali, come alcuni di questi sette. Per quanto imprescindibile, lo stile va calibrato alla sostanza (beninteso non c’è sostanza senza stile), ed esistono capolavori il cui stile può non eguagliare esteticamente la bellezza di altri film, che capolavori non sono. …Tutto questo per dar conto, soprattutto, dei primi due posti: opere esteticamente senz’altro più convenzionali di quelle che pongo al 7° e al 6°, ad esempio (in particolare Moretti non ha mai avuto un senso straordinario della messa in scena; malgrado ciò non può non considerarsi l’autore italiano determinante della sua generazione).
Procediamo.
7. FRANCOFONIA di Alexandr Sokurov
L’arte e il potere. E le inesauribili implicazioni del loro rapporto. In “Francofonia” Sokurov affronta, con modalità quasi godardiane, uno dei nuclei portanti della propria poetica. Il potere che calpesta l’arte è lo stesso che ne ha bisogno; l’arte, costretta a tentare di sopravvivere alle intemperie della Storia, dalle sue vicissitudini trae alimento. Anche dalle più terribili: e proprio il cinema di Sokurov è lì a dimostrarlo. Il suo ultimo film non è (per alcuni) tra i suoi capolavori, ma a me pare cristallino nell’esporre i suoi temi, e potrei quasi preferirlo, soggettivamente, ad “Arca russa“, la cui perfezione tecnica ha una freddezza e una compostezza inumane, che mi hanno sempre quasi inibito. Vedi recensione per Ondacinema (link dal titolo).
6. BELLA E PERDUTA di Pietro Marcello
I film di Sokurov e Marcello hanno alcune affinità ai miei occhi: e al film del Grande Maestro antepongo, in questo gioco che è la classifica, l’imperfezione (voluta, come dimostra il ricorso ad esempio anche a pellicole scadute) di Pietro Marcello, che solo in superficie è meno “sublime”. “Bella e perduta” (un palazzo in rovina, sineddoche dell’Italia), nel suo candore, è film più genuino, autenticamente immaginifico. Dall’attrito tra il reale e la libertà creativa dell’immaginazione scaturiscono oggi film davvero essenziali per il futuro della settima arte: film poetici anzichè prosaici, opere scisse da una logica narrativa, liriche, che partono dalla concretezza della realtà per ricamarci sopra una fantasticheria dell’autore, che magari fiorisce in corso d’opera come è successo a Pietro Marcello. Qui davvero la non-perfezione è una ricchezza.
5. QUANDO C’ERA MARNIE di Hiromasa Yonebayashi
Spoiler alert. Due volte l’ho vista e due volte mi ha commosso, questa storia di una ragazza che si prepara alla vita confrontandosi con la propria nonna da ragazza. Quant’è bello il modo in cui qui si immagina di far rivivere a una nipote, in autentica empatia, i sentimenti provati dalla propria nonna mai conosciuta, come fosse una coetanea e un’amica. Per suggestioni, siamo dalle parti del mio adorato “La doppia vita di Veronica” di Kieslowski. Certo, la regia è un’altra cosa. Ma è pur sempre un Ghibli – auguriamoci aperto sul futuro – e le qualità di cui la casa è garanzia ci sono tutte.
4. L’ALTRA HEIMAT di Edgar Reitz
L’universo di Reitz, inesauribile nelle sue germinazioni, ha partorito un capolavoro che quasi eguaglia la grandezza del primo Heimat (pur mantenendosi inevitabilmente lontano dall’enorme valore della “Seconda Heimat”, ovvero dell’opera cinematografica più vicina alla Recherche di Proust). Questa storia di due fratelli, dei loro destini incrociati, possiede evidentemente qualcosa di archetipico, che Reitz declina in un film ricco di armonia e di suggestioni, di inarrivabile sapienza drammaturgica e scenografica. Si veda una delle dissolvenze incrociate più lunghe della storia del cinema, o la squisita semplicità dei tocchi di colore, o ancora i delicati ‘voli’ della macchina da presa sull’erba alta dei prati. Reitz dialoga con i più grandi, non solo del cinema, cui dà del Tu.
3. FOXCATCHER di Bennet Miller
“Foxcatcher” è il film americano live-action migliore di questi ultimi due anni. Con una messa in scena strepitosa (Miller, al terzo film, è il regista statunitense più interessante e promettente della sua generazione), questo film che stordisce, dall’andamento ipnotico, è una formidabile tragedia contemporanea incentrata sull’individualismo e sul plagio, sul mito del successo e sullo sgretolarsi, sull’implodere delle ambizioni e delle ossessioni, sotto la forza di immane condizionamenti psicologici, primo dei quali quello edipico (Miller sfiora tematiche comuni a PT Anderson, si confronti questo film a “The master“).
2. MIA MADRE di Nanni Moretti
Una riflessione profondissima sull’autenticità: sul bisogno di una finzione narrativa che sia aderente anzitutto all’autenticità, piuttosto e prima ancora che alla “realtà”. Piuttosto che limitarsi a denunciare un disorientamento, l’ultimo film di Moretti vuole scuoterci dall’opacità, stimolare la lucidità. Farci dismettere le maschere, disarmare la finzione; recuperare – appunto – l’autenticità. “Mia madre” è il capolavoro del Moretti post-Apicella, superiore a “La stanza del figlio” (e c’entra, naturalmente, l’autenticità del dato biografico). Vedi, per approfondimenti, la recensione per Ondacinema (link dal titolo).
1.INSIDE OUT di P. Docter, R. del Carmen
E’ il grande capolavoro della Pixar. Superiore a tutti quanti i lungometraggi della casa per profondità, ricchezza, e armonia di resa: superiore anche al miliare “Toy Story” (che gli è più importante esclusivamente per ragioni storiche e tecniche). “Inside Out” è compatto e senza cali: ad esempio, la prima parte di “Wall E” e l’inizio di “Up” sono memorabili, ma entrambi i film faticano ad arrivare alla fine mantenendosi a quei livelli. “Inside Out“, invece, mentre procede cresce. E, come scrive LongTake nella sua bella scheda, “il messaggio finale, che insegna come la Gioia non possa esistere senza la Tristezza, è di commovente, vibrante verità. Un’esperienza esistenziale, più che cinematografica, assolutamente imperdibile. Una tappa nella storia del cinema, d’animazione e non”.
14 grandi film
21. CITIZENFOUR di Laura Poitras
Il film che ha strameritato l’Oscar per il miglior documentario. Efficace a riguardo la sintesi di Giancarlo Usai: “ricostruisce, con minuziosità e senza mai rinunciare a una narrazione avvincente da grande schermo, lo scandalo Nsa e la vicenda umana e professionale di Edward Snowden. Un documentario che è prima di tutto un reportage dettagliato, certo, ma che ha il piglio e il ritmo di un vero e proprio thriller. La bravura della Poitras sta proprio in questo saper raccontare eventi reali, senza mai renderli artefatti, eppure tenendo sempre alta la tensione in chi guarda”. Aggiungo: un film di importanza enorme, come documento in presa diretta di una vicenda che deve essere paradigma dello stato delle cose per quanto riguarda la limitazione delle libertà individuali dopo l’11 settembre.
20. KREUZWEG – LE STAZIONI DELLA FEDE di Dietrich Brüggemann
Un’opera estrema. Una di quelle che basta un minimo spostamento della propria prospettiva per ritenerla in malafede o, viceversa, assolutamente onesta. Propendo decisamente per la seconda interpretazione. Sarebbe scorretto interpretare il film come un pretestuoso atto d’accusa verso la religione. Invece si tratta di un’accusa perentoria dell’ottusità disumana di chi ha bisogno di aggrapparsi al dogma e al proprio esclusivo settarismo pur di mantenere un volto e riconoscersi allo specchio. Non è un discorso di fede, quanto di identità. Declinato con una messa in scena composta di piani sequenza glaciali, con uno sguardo impietoso, asciutto, ma colmo di intransigenza e, al contempo, persino di ironia.
19. WHILE WE’RE YOUNG (“GIOVANI SI DIVENTA”) di Noah Baumbach
Il regista di Brooklyn realizza il suo film più riuscito sul tema del conflitto generazionale, plasmando al solito con agile duttilità personaggi in bilico fra speranza e disillusione, ambizione e inettitudine, nei cui ritratti è maestro. Percepiamo in Baumbach un’eco rohmeriana per la capacità di mantenere un’ambiguità di fondo che lascia allo spettatore la libertà di stabilire quanto siano più o meno avvilenti, tirate le somme, i ritratti di queste anime in preda alla smania di realizzarsi, di cui la vanità irresistibile di New York è combustibile principale.
18. LA LEGGE DEL MERCATO di Stéphane Brizé
Questo grande film ha tre assi nella manica, uno dei quali è la superba interpretazione di Lindon (premiata a Cannes). Gli altri due sono l’intreccio – che non vale per le implicazioni socio-economiche, quanto per quelle morali (siamo dalle parti dei Dardenne, o anche di un diabolico episodio del “Decalogo” di Kieslowski) – e una messa in scena inventiva, perpendicolare (Lindon recita quasi sempre di profilo). Quando è frontale, i personaggi sono schiacciati insieme ai loro destini. Fino all’ultima scena dove, forse…
17. BIRDMAN di Alejandro González Iñárritu
Hollywood ha ringraziato questo make up del supereroe sulle sponde dell’Hudson. Il teatro “colto” di Broadway rappresenta l’illusione intellettuale di New York di essere affrancata dalla volgarità da blockbuster essenza dell’american dream al di là delle sponde dell’Hudson. Si sa: gli USA detestano i newyorkesi, considerandoli snob e altezzosi, mentre i miti e i sogni degli statunitensi coincidono con quelli che da sempre fabbrica Hollywood. “Birdman” non attacca più di tanto il mito di Hollywood (anzi, come dimostrail finale, lo fa beffardamente trionfare): ma questo non è un limite, anzi rende fertile e stimolante un’operazione genialmente ironica almeno quanto è ambiziosa nella (senza dubbio strepitosa) messa in scena.
16. YOUTH – LA GIOVINEZZA di Paolo Sorrentino
L’accostamento a “Birdman” non è casuale: si tratta di due gioie per gli occhi, per quanto molto autocompiaciute. E anche se il film di Sorrentino non punta al tour de force come prova di regia, per entrambi i film il narcisismo degli autori costituisce uno stesso identico limite. Tuttavia, Sorrentino è stato gravemente frainteso in Italia. Questo è uno dei suoi lavori più complessi e maturi (sì: più maturo de “La grande bellezza”). Mi pare davvero che in pochissimi, se mai qualcuno, abbiano evitato di soffermarsi sui vezzi e le stranezze del consorzio umano descritto dal regista napoletano, per dare piuttosto peso adeguato al cuore del racconto: la descrizione di due opposti modi di invecchiare da parte di due artisti. Il primo (Keitel) centrato sulla vanità e sul narcisismo, l’altro, invece, che rimane uomo prima che artista. E il finale, lungi dall’essere un tornare sui propri passi, è invece il magnifico approdo di un doloroso e intimo percorso che ha portato il personaggio interpretato da Caine a comprendere che, malgrado tutto, per vivere è necessario che anche lo spettacolo vada avanti.
15. NON ESSERE CATTIVO di Claudio Caligari
Per come la vedo io, gli eccellenti riscontri di critica è più che probabile derivino anche dall’esser tutti un po’ influenzati dalla sorte sfortunata di Claudio Caligari (prima ancora che come uomo come cineasta, s’intende). Ma questo suo postumo finire sotto i riflettori ci ha regalato anche l’opportunità di rivalutare – nel suo film senz’altro più maturo, se non più importante – la specialità di uno sguardo altro, diverso da tutto il panorama italiano che lo circonda: uno sguardo appassionato, privo di vezzi e privo di orpelli, che è anzitutto uno sguardo profondamente umano, colmo di pietas e carico di pathos.
14. TURNER di Mike Leigh
Il ritratto di un uomo che cercava l’assoluto nella luce e nella natura indomabile, solitario per vocazione. Un ritratto che non sarebbe completo se privo del fondamentale contrappunto fornito dallo sguardo vigile, anche se apparentemente inconsapevole e ottuso, di un’umile serva. Leigh nobilita straordinariamente questa figura: a lei, non per nulla, dedica l’ultima inquadratura. Come a Mary in “Another Year”. A Leigh sono sempre stati maggiormente a cuore i più umili. E forse è in lei che occorre scorgere la protagonista nascosta di “Turner”, l’elefante africano travolto dalla tempesta di neve, senza il quale non sospetteresti l’esercito di Annibale. Vedi recensione su Ondacinema (link dal titolo).
13. INHERENT VICE (“VIZIO DI FORMA”) di P.T. Anderson
Dopo due capolavori immensi, P.T. Anderson ha fatto un film che conferma le doti e la versatilità eccezionale di quello che è il più grande regista statunitense della sua generazione. A partire da “There will be blood” (“Il petroliere”) Anderson ha iniziato una rilettura dell’evoluzione degli Stati Uniti secondo una prospettiva in cui paiono centrali i rapporti di potere fondati sulla persuasione e sul dominio psicologico. Gli ultimi tre film fotografano tre tappe successive. “Il petroliere” è il contro-racconto dell’espansione territoriale e capitalista fondata sul mito del self-made man; “The master” si tuffa nei lati oscuri dell’espansione economica degli anni ’50. “Inherent vice” punta a svelare il vizio intrinseco della controcultura, all’alba del riflusso (siamo nel 1970), confrontandosi con i segnali della frantumazione dell’ultimo grande sogno americano, quello utopico dei sixties. Qui, un approfondimento sugli ultimi tre lungometraggi di Anderson.
12. VULCANO – IXCANUL di Jayro Bustamante
Vulcano – Ixcanul”, concentrato sulla marginalità dell’etnia maya nel Guatemala, è uno splendido esempio di come possa farsi grande arte con uno sguardo aderente al reale, anche se scevro da ogni logica documentaristica. Bustamante cala una storia paradigmatica e archetipica di contrasto fra comunità e individuo, eviscerando tutte le contraddizioni fra l’importanza della libertà individuale e quella della salvaguardia delle comunità locali, fra modernità e tradizione; in un amalgama fra natura e civiltà, che travalica la denuncia. Un’opera insieme visionaria e realista, splendida negli aspetti stilistici quanto fondamentale per quelli socioculturali. Se lo colloco così in alto è anche per premiare una cinematografia “marginale”, di un’area cinematograficamente parlando in grande fermento (l’America latina); e anche la coraggiosa distribuzione italiana.
11. PER AMOR VOSTRO di Giuseppe M. Gaudino
Anna è donna, donna del Sud, madre. Il personaggio è valso a Valeria Golino il premio per la miglior interpretazione a Venezia. Quella di Per amor vostro, film materico, imbevuto di Napoli, del suo ventre, del suo sottosuolo, è la storia di un’inaspettata redenzione da parte di una madre la cui forza è l’amore felicemente istintivo per i figli. Per amor loro, il suo bisogno di fuga si concretizza in un riscatto civile e morale, che è anzitutto il riscatto della donna sul maschio – che sia fratello, marito o amante. Spesso, non a caso, strozzino. Vedi recensione su Cineforum (link dal titolo).
10. EVERY THING WILL BE FINE (“RITORNO ALLA VITA”) di Wim Wenders
Il film stilisticamente più innovativo dell’anno (anche se il soggetto non è altrettanto clamoroso), è questo secondo esperimento di Wenders con il 3D, dopo il clamoroso documentario “Pina”. Wenders apre il 3D a un dialogo con la dissolvenza, le sovrimpressioni, la fotografia, i riflessi, i riquadri nel quadro, e naturalmente con la profondità di campo. Particolarmente insistito, il ricorso all’uso dello zoom avanti/carrello indietro – come in “Vertigo” – che, in 3D, contribuisce al disorientamento emotivo su cui tutto il film è fondato. A parte l’uso disarticolante ed estremo (e provocatorio) di Godard, questo è il film in cui l’uso del 3D è il più bello che sia mai stato fatto sinora. Vedi recensione su Cineforum (link dal titolo).
9. THE WALK di Robert Zemeckis
3D di grande impatto, che esalta una visione cui è straordinariamente funzionale. Ma non è questo il merito di “The walk”, che – sin dalla sua strutturazione narrativa e scenografica – è soprattutto un bellissimo inno al Cinema. Alla sua capacità di farci sognare e di lasciare che i sogni siano immortali. Le persone invecchiano; tutti un giorno moriremo. I miti crollano, come le torri. Ma l’accesso ai miti è eterno. L’ultima scena di “The walk” è memorabile, e dice tutto a riguardo. La libertà di sognare e la pervicacia di seguire i propri sogni dona valore alla vita (alla vita, non alla morte).
8. TIMBUKTU di Abderrahmane Sissako
Sissako è regista enorme, e la messa in scena di “Timbuktu” è pazzesca. La scelta dei campi, dai primi piani ai campi lunghissimi, lascia senza parole. Niente di mai visto, ma davvero da togliersi il cappello. Dopo averlo rivisto, è cresciuto nella mia già alta considerazione. Ed è davvero tanto importante un’opera che oggi ci prova a raccontare un fenomeno complesso come quello lì, che le tragedie più terribili li crea in posti come il Mali, non tanto a Parigi (per quanto grave sia quanto accaduto).