Come dev’essere un documentario per essere davvero grande cinema (questo è uno dei più belli della storia del cinema): non tradire l’approccio personale e, partendo dall’intento di indagare la realtà, esser disposto a perdersi in essa.
Wenders è grandissimo quando quello che trova non corrisponde a quello che cerca, e – per quanto vagamente deluso, come in questo caso – sa meravigliarsi di quello che trova: non lo sminuisce, se ne lascia conquistare.
In questo è diverso il suo approccio, rispetto a quello di Herzog (punto di vista, quello di Herzog, con cui Wenders in “Tokyo-Ga” si confronta, lasciando parlare per sé le proprie immagini). Herzog cerca quello che non si trova più: immagini mitiche, estreme, paradigmatiche, antirealistiche. Herzog crea mondi, Wenders – umile dove Herzog ambisce ad essere eroico – preferisce osservare. Herzog sostiene che per trovare immagini autentiche occorra ormai scavare come archeologi. Wenders documenta come la standardizzazione e l’alienazione stiano fagocitando l’autenticità del Giappone che lui ha mitizzato, nelle immagini dei film di Ozu; ma mentre edifica un monumento al cinema di Ozu, non solo affida un fascino arcano alle immagini di una metropoli che si è sradicata dalle proprie radici, ma riesce anche a far emergere tracce residue di umanità nipponica in molti personaggi che popolano il suo film, anche solo di passaggio. E trova nell’operatore di Ozu un esempio monumentale di dedizione e autenticità.
Wenders, con Tokyo-ga, ha lasciato una testimonianza di importanza pasoliniana sulla mutazione “antropologica” culturale dell’occidente: ha colto nell’ “immagine di Tokyo” le tracce epocali di quel cambiamento profondo che ha coinvolto tutte le civiltà del pianeta all’indomani della seconda guerra mondiale (pochi anni fa andava di moda parlare di globalizzazione).
Ciò su cui Wenders qui lancia lo sguardo, di cui lascia testimonianza, è l’evento socio-culturale del XX secolo che ha portato a vivere tutti in un mondo profondamente ridefinito in profondità – nelle immagini, nei costumi, nelle forme mentali. Le nostre civiltà – non solo quella giapponese (come Wenders sapeva bene, avendo iniziato, nel decennio precedente, a percorrere la Germania alla ricerca delle stesse mutazioni) – hanno iniziato a ridisegnarsi nel profondo proprio nei 20 anni compresi tra la morte di Ozu e “Tokyo-Ga”, che a Ozu rende omaggio.