La prima parte di “Onibaba – le assassine” è un’angosciosa allegoria (magnifica, per essenzialità) di un’umanità che più hobbesiana non si può (lo stato di natura rousseuviano appare quanto mai una favola per bimbi), in cui due donne, lasciate sole dagli uomini partiti per una guerra senza luogo e senza tempo, uccidono per sopravvivere, e depredano soldati di passaggio.
Nella seconda parte si sviluppa il plot; il film perde parzialmente capacità di parlare in termini assoluti e universali, ma si contestualizza maggiormente in una civiltà e un immaginario. La gelosia è innescata dalla comparsa della pulsione sessuale; la metafora della maschera è non solo il segno che certi sentimenti restano marchiati sulla pelle, ma anche segno di una condanna, di una sventura, di una maledizione. Quasi il marchio di una condizione secolare di vessazione perenne che la donna subisce da parte dell’uomo: fino al punto di rivoltare donna contro donna, privando forza alla loro rivolta – anarchica e assassina – contro il genere maschile.