Borges
Il “Neruda” di Larrain, tra Borges e Tarantino
In “Neruda” di Pablo Larrain si percepiscono echi di Borges. L’intrigo poliziesco rimanda ai labirinti e ai giochi di specchi metanarrativi di molti racconti del gigante argentino (“Il giardino dei sentieri che si biforcano”, in particolare; ma anche “Tema del traditore e dell’eroe”), evocato già da Lisandro Alonso nei suoi film, specie in “Jauja“. E in “Neruda” l’eco di Borges si coniuga a un’attenzione per il cinema di genere – per il poliziesco, evidentemente – inedita per Larrain, in cui, man mano che il film procede verso una sezione finale quasi astratta, i personaggi acquistano coscienza di sé in quanto personaggi, presi in una trama di cui sono solo pedine: e questo, unito al gioco scoperto con i generi classici (il western, il noir), non può non ricordare qualcuno che apparentemente sta agli antipodi di Borges: Quentin Tarantino. Anche le manipolazioni che Larrain opera sulla Storia ricordano la disinvoltura con cui Tarantino la riarrangia a uso proprio. Lo scarto, evidentemente, sta nei modi: Tarantino agisce in un modo divertito cui (solo apparentemente) è bandita ogni riflessione di matrice intellettuale; Larrain opera in un contesto più tradizionalmente “autoriale”. Eppure il suo “Neruda” assume e rielabora stilemi postmoderni (il narratore inattendibile, ad esempio), memore “anche” di Tarantino, portandoli fuori da un contesto esclusivamente metacinematografico e provando a fare i conti – come da sempre nel proprio cinema, ma ora da una nuova prospettiva – con la Storia del proprio Paese (ancora una volta, è la stessa operazione che si sforza di fare, diversamente ma non poi così tanto, Tarantino).
Voto: forse superiore al 9, in attesa di una nuova visione.
EDIT: alla seconda visione il voto è 10 (pietra miliare)
“2001: Odissea nello spazio”. Il film dei film.
Per OndaCinema, ho scritto una “pietra miliare” su quello che per me resta (e probabilmente resterà) il film più bello, importante, significativo sotto ogni punto di vista, che sia mai stato realizzato.
Alla chiave di lettura scelta (sintetizzata nella frase più sotto in corsivo), ho aggiunto un filo conduttore: uno spunto comparativo con l’opera di M.C. Escher che non mi pare fosse stato ancora rilevato (almeno non ho trovato fonti a riguardo, ma sarei lieto di essere smentito).
Pietra miliare dell’arte del XX secolo, l’Odissea di Stanley Kubrick fa sperimentare la sete di comprensione insieme all’impossibilità di superare i limiti della comprensione. Ai continui balzi in avanti si contrappone l’eterno ritorno della figura del cerchio. Un’opera che indaga entro i limiti del finito le possibilità dell’infinito.
“Jauja”, dove il cinema contemplativo di Lisandro Alonso incontra Borges
Aggiunto all’archivio dei capolavori l’ultimo film del regista argentino Lisandro Alonso, “Jauja”, un film che inizia come “Aguirre” di Herzog, prosegue come “Picnic ad Hanging Rock” di Weir, per finire in un modo che ricorda “Mulholland Drive” di Lynch. Ma sulla pellicola di Alonso, cineasta che da sempre corteggia fantasmi, aleggia soprattutto il fantasma del connazionale Jorge Luis Borges, gigante della letteratura del ‘900: il quale al mistero, e all’indecifrabilità dell’esistere, ha eretto impressionanti monumenti.
Buona lettura:
INTERSTELLAR. Nolan apre al cuore. L’amore salverà il mondo?
…L’amore salverà il mondo, ma Nolan ama ancora intrappolarsi dentro i labirinti spazio-temporali che contraddistinguono il modo, suo e del fratello, di concepire storie. E perciò ancora non ci regala quel capolavoro cui il suo cinema extra-Batman aspira con ambizione sconfinata. Comunque, anche se Nolan non è ancora in grado di attingere le vette della più alta arte cinematografica, assistere a pellicole come questa è pur sempre un’esperienza di grande cinema. “Interstellar” risucchia in un vortice spazio-temporale che non ha pudore di appoggiarsi in più di un momento a citazioni e omaggi dell’odissea kubrickiana (specie nel finale), con l’ambizione smisurata di andare addirittura oltre.
Al di là dei cubi di Rubick con cui Nolan ci lascia sempre a interrogarci fino al mal di testa sulle sue licenze, poetiche e scientifiche, e della sua fissa per le dilatazioni del Tempo (stavolta il gioco si chiama: teoria della relatività), al di là di tutto questo, la vera novità di “Interstellar” è scoprire che Nolan ha scoperto i sentimenti. E facendo dell’Amore il motore immobile del suo universo dove si muove tutto, termina il suo film in odore di “Solaris”, con un finale che quasi vorremmo immaginare sulla soglia di una dacia.
Una menzione poi la merita davvero quella biblioteca di babele di borghesiana memoria con funzione di stanza rococò kubrickiana, dove si coltiva la speranza che a guidare un senso nell’infinito proliferare dei segni possano essere solo le lancette dell’amore.
Insomma, Nolan, che dire. Non riesci mai a convincermi di aver fatto un capolavoro, ma la tua cerebrale visionarietà sa lanciare sempre forti suggestioni. E come per tutti i migliori prestigiatori, la grandezza del tuo valore sta forse proprio nella vertiginosa suggestione di non poter sapere se era solo un trucco, o era in parte vero, quel che ci hai voluto lasciare immaginare.