A DANGEROUS METHOD

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Nell’ultima fase della sua carriera, Cronenberg ama affondare il coltello in trame apparentemente classiche, in cui la trasparenza, il nitore della superficie meglio si presta all’operazione chirurgica di affondare nel magma sottostante, che ora si svela tramite la parola, che è più potente dell’immagine provocatoria e shoccante dei suoi precedenti (capo)lavori.

E’ difficile immaginare una sceneggiatura più trasparente di quella di “A dangerous method”, quasi insuperabile per precisione cronometrica. Che capacità di sintesi, che narrazione saettante ed essenziale! Tutto viene detto a chiare lettere. E così viene mostrato: non ci sono ombre nelle immagini di Cronenberg, tutto è in piena luce, privo di contrasti, quasi appiattito.

Tale è la densità dell’opera, che in un’ora e mezza la vicenda di Freud, Jung e Sabrina Spielrain subisce enormi mutazioni senza mai scadere a bignami dei loro rapporti. Le sequenze sono calibrate come in un orologio *. Si pensi alla successione delle sequenze in cui Otto Gross fa da catalizzatore per la passione tra Jung e la Spielrein, e in particolare a un certo dialogo in due tempi tra Gross e Jung, inframmezzato dall’esecuzione terapeutica delle valchirie di Wagner, e quindi dalla scena del bacio.
Già, Wagner: ne parlano Jung e Sabrina. Wagner e Nietzsche, la loro lettura distorta dal nazionalsocialismo, e la visione del sogno di Jung della marea che insanguina l’Europa. La nascita della psicanalisi, la crisi del positivismo, non restano isolati dalla deriva della Storia: gli abissi su cui Freud e Jung spalancano lo sguardo è un magma vulcanico i cui effetti non controllati possono esser letti anche come la violenza distruttiva che travolgerà la civiltà europea nel Caos delle guerre mondiali. “A dangerous method” allude ai germi delle due guerre che sconvolsero l’Europa e il mondo nella prima metà del XX secolo, allo stesso modo di come vi allude “Il nastro bianco” di Haneke.

Tantissima cultura ruota da un secolo attorno a Freud, figura ingombrante che aleggia anche su tutta l’opera di Cronenberg. Con Freud, adesso, Cronenberg ha il coraggio di fare direttamente i conti, per provare a liberarsi dal fardello della sua autorità. Così come fece il “discepolo” Jung. Nell’ultima didascalia del finale, è evidente la predilezione di Cronenberg per Jung, definito “il più grande psicologo di tutti i tempi”.

“A dangerous method” è la storia di una sfida al principio di autorità. E’ una sofferta emancipazione da un masochismo intellettuale. Jung si smarca da Freud, padre-padrone, in un processo che passa attraverso l’assunzione di un ruolo sadico con Sabrina (mentre, per Sabrina, i rapporti masochisti con Jung rappresentano lo sfogo, la sublimazione del masochismo patologico che discendeva dal rapporto malato con il proprio padre).
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Cronenberg è affascinato dalla psicologia junghiana: ci sono territori inesplorati, dentro e attorno l’essere umano. C’è dell’altro, al cuore dell’inconscio, oltre alla pulsione erotica come motore primigenio: qualcosa che ancora non è stato scoperto. Come, per Jung, non esisterebbero le coincidenze, così ciò che sembra appartenere al paranormale attenderebbe soltanto di essere decifrato in termini scientifici.
Il valore di “A dangerous method” come chiave di volta risolutiva, nell’opera di Cronenberg, si comprende confrontando due scene.
Nella prima, Sabrina Spielrein espone a Jung la teoria per cui la sessualità, nella sua essenza più profonda, simboleggia la distruzione dell’ego, l’annullamento di un’individualità in un’altra: la rimozione delle pulsioni sessuali non corrisponde, allora, come in Freud, alla rimozione dell’impulso vitale primario, ma scaturisce dalla ribellione dell’ego al proprio annichilimento. L’essenza sfrenata dell’eros come distruzione dell’ego, non come trionfo della vita. C’è tutto il cinema passato di Cronenberg in questa sintesi.

Quindi, in una scena successiva, Jung confessa a Sabrina che i suoi sforzi sono tesi a fare della psicanalisi non semplicemente il percorso per svelare al paziente la sua malattia che si contorce “come un rospo”, bensì il percorso per indicare al paziente la strada verso la pienezza della propria individualità.
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Una nuova tensione anima il cinema di Cronenberg: al regista non basta più svelare la sostanza nichilista e autodistruttiva dell’eros (ossia scorgere in thanatos non l’opposto dell’eros, ma l’essenza [“Crash”, “M. Butterfly”,”Videodrome”]). Si fa strada un barlume. Far luce sui territori inesplorati che si celano sotto le illusioni dell’identità potrebbe non portare solo a osservare un rospo che si contorce, ma illustrare potenzialità ignote della realizzazione di sé.
Naturalmente, i personaggi del film sono ben lontani dal realizzare tali potenzialità. Tuttavia Jung ci ha provato con tutto se stesso. E il film stesso si muove dalla malattia che si contorce verso una lotta senza quartiere fra impulsi sfrenati e ragione, Logos. Se la ragione non ha la meglio, neppure l’ego ne risulta annichilito. Cronenberg abbandona il mostro-Sabrina delle prime sequenze, che in crisi isterica si contorce e si deforma come una creatura mutante uscita dai primi film di Cronenberg, per affondare nel Logos. La Parola esplora i meandri della psiche disposta a smarrirsi in essa, a fare esperienza dello scacco della ragione e dell’imprescindibilità delle esperienze vissute sulla propria pelle.
Nel finale assistiamo a un uomo parzialmente sconfitto, ma che si riprenderà, arrivando un po’ più oltre. Anche se la vita e la Storia consumano tutti, Cronenberg ha composto un inno alla fatica di non rassegnarsi. Il continente che Jung ha intravisto, aspetta ancora di essere esplorato.

* Indicativa la sequenza in cui la moglie di Jung fa il test psicologico, con le singole inquadrature scandite dai ticchettii del meccanismo a orologeria, e Cronenberg si lancia in una mirabile composizione delle inquadrature, fa uso libero e creativo di campo e controcampo.


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