Fabbrica di sogni, deposito di incubi
Il lato oscuro della luna
“First Man” (Damien Chazelle, 2018), anziché agiografia di un trionfo è celebrazione crepuscolare, canto funebre a qualcosa che non c’è più: celebra certamente il sogno, ma si concentra sul lato oscuro della luna, il sacrificio necessario a realizzarlo: la compromissione della vita privata, l’incrinatura nella relazione coniugale. Nell’ultima scena, Armstrong “pone un bacio sul vetro: in quel punto lei se la sente di poggiare solo la mano. Con quel bacio, che non viene contraccambiato che in parte, l’uomo sembra chiedere più di quanto la donna non possa ormai più concedere” (citazione da “La conquista dell’inutile”, Cineforum 579).

Questione di genere, questione di sguardo
All’inizio di “Zero Dark Thirty” (Kathryn Bigelow, 2012), la protagonista è in una posizione passiva, afflitta dalle torture cui assiste. Gradualmente compie una metamorfosi: alla fine, “la donna che si inginocchiava nella stanza della tortura ha imparato a guardare in faccia l’orrore”. “Maya è diegeticamente nella posizione di colei che guarda, e quasi mai oggetto dello sguardo”, diversa in questo dalla posizione cui è più spesso costretta la donna nel cinema, oggetto dello sguardo. Citazioni da Stefania Rimini, “’A View to a Kill’: Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow”, in A. Cervini (cur.), “Il cinema del nuovo millennio. Geografie, forme, autori”, 2020.

American Honey, Dream Baby Dream
Il sogno dei ragazzi di questa “mag crew” è privo di ideali, “assuefatto alle regole di un darwinismo economico basato sulla truffa” (Federico Pedroni, Cineforum 555, 2016). Eppure c’è lei, Star (Sasha Lane), che all’ingresso in Kansas City ha la meraviglia negli occhi nel contemplare dei grattacieli per la prima volta.
“American Honey”, Andrea Arnold 2016

L’accettazione del destino secondo Chloé Zhao
Il conflitto primario messo in scena da Chloé Zhao in “The Rider” è quello che “separa desiderio e realtà” (Rudi Capra, recensione su Ondacinema). Nel percorso di accettazione del destino, si riflette qualcosa di essenzialmente orientale che appartiene all’identità culturale della regista.
“Tra i due momenti topici e tragici (l’eroe ferito dopo la battaglia e l’eroe della rinuncia del finale) non c’è nessuna epica: solo il lento aggiustamento ai ritmi della vita” (Alberto Morsiani, “Cavalcare il dolore”, Cineforum 588).

Il sacro in Minervini
Secondo Roberto Minervini, è un’esperienza “abbastanza sacra il condividere con dei personaggi le pene dell’inferno; l’inferno della periferia americana” (in Dario Zonta, “L’invenzione del reale”, 2017). Si tratta di una sacralità – osserva Dottorini – che appartiene ai corpi, alla loro flagranza, e rimanda in certa misura al concetto di sacro che risiede al cuore del cinema di Pasolini. Daniele Dottorini, “La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo”, 2018.



Una definizione del cinema di N.W. Refn
Nicholas Winding Refn, “ostinatamente dedicato alla costruzione di una cifra stilistica in qualche modo assoluta”, ha saputo definire un proprio marchio autoriale estremamente riconoscibile. La citazione è di Franco Marineo, “Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni”, 2014.


Lo scorrere del tempo secondo Linklater
In “Before Midnight” (2013), come nei due film precedenti della “trilogia Before”, lo scorrere del tempo è colto nella sua “ordinaria straordinarietà. Una gita in macchina, un pranzo conviviale, una passeggiata, una notte in hotel. E intanto, attraverso i soliti potenti dialoghi, i due affrontano l’orologio della vita, lo commentano, lo sfidano. Il litigio che li porta a un passo dalla rottura non è enfatizzato, è una parte del tutto, un elemento intrinseco a quella giornata. E la macchina da presa del regista texano fa quello che le riesce meglio: con discrezione, dal cofano dell’auto, o dall’angolo di una stanza, si limita a filmare, a imprimere su pellicola il fluire dei minuti”. Giancarlo Usai, recensione su Ondacinema.it
“Boyhood” (2014) termina con una gita – non programmata – il giorno prima dell’inizio del college, e culmina sull’elettrizzante sogno di una nuova storia d’amore, nell’istante in cui Mason e un’altra ragazza se ne rendono conto contemporaneamente. Fino a un attimo prima, la loro reciproca attrazione era più chiara allo spettatore che a loro. “Sai quando si dice ‘cogli l’attimo?’ Io penso invece che sia l’attimo a prendere noi”.


Blackness turns blue.
Pietro Bianchi su “Moonlight” (2016) di B. Jenkins La comunità afroamericana e la blackness sono state mediaticamente sovra-rappresentate sotto la specie della criminalità. Jenkins ci dice che per vincere l’emarginazione dei neri occorre partire dallo sguardo: “bisogna riuscire a vederli sotto un’altra luce. Appunto, una moonlight”, che stempera il black nel blue dell’intimismo e della malinconia (Pietro Bianchi, recensione di “Moonlight” su Cineforum.it).

“Dunkirk” (C. Nolan, 2017) e “1917” (Sam Mendes, 2019)
Per mostrare l’incertezza in cui in guerra si rischia la vita a ogni piè sospinto, entrambi i film – costruiti in modo opposto a partire dal montaggio – assumono e mantengono un punto di vista interno a una sola parte del conflitto, senza che il nemico si veda praticamente mai (e senza naturalmente mai assumere neanche per un attimo il punto di vista del nemico). Si percepisce l’aleatorietà di ogni avvenimento, la minaccia continua della morte, che può giungere del tutto inaspettata.


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