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SNOWPIERCER: il treno del Leviatano

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snowpiercer1Pubblicata, su filmscoop.it, una recensione della cruda e bellissima pellicola di Bong Joon-Ho, “Snowpiercer”, destinata a restare una pietra miliare delle allegorie distopiche.

Buona lettura:

IL TRENO DEL LEVIATANO

THE WOLF OF WALL STREET: il fascino ammiccante dell’ego senza freni

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WOLF Gli italiani Jordan Belfort lo avrebbero fatto presidente del consiglio. Pur essendo enormi le differenze fra i sistemi immunitari delle democrazie italiana e statunitense, sono gli stessi i miti che abbiamo fatto nostri a partire dal secondo dopoguerra. Inutile trincerarsi dietro l’idea che il lupo di Wall Street Jordan Belfort sia un degenerato immorale, o dietro la ripugnanza per i suoi eccessi. I suoi eccessi divertono. Eccitano. Sono lo specchio grottesco e iperbolico di una civiltà incentrata sull’individualismo sfrenato, sulla prevaricazione violenta, sulla rivincita dell’Io sulla Società. Temi che poi costituiscono il fulcro della poetica di Scorsese. “The wolf of wall street” è l’ultimo venuto nella costellazione di Ego maschili e prevaricatori, avviato già all’epoca di “Boxcar Bertha” (“America 1929. Sterminateli senza pietà“), proseguito, attraverso registri diversi, con “New York New York”, “Toro scatenato”, “Re per una notte”, “Goodfellas”, “Casinò”, “Gangs of New York”, “The aviator”. Da sempre, anche se mai come qui, Scorsese ha inteso renderci partecipi e complici dei suoi individualisti protagonisti volti alla rovina. Soggetti eccessivi, predestinati al disastro, che quasi perseguono sin dall’origine la loro catastrofe: accarezzando l’ebbrezza del crollo, in un nichilista cupio dissolvi.

Tre sono le peculiarità che rendono originale “The wolf of Wall street“, nuova pietra miliare nella filmografia di Scorsese dai tempi di “Casinò”. 1) Scorsese descrive il mondo dell’alta finanza (che manovra le sorti del pianeta) come fosse esattamente lo stesso mondo della criminalità organizzata, governato dalle stesse leggi interne dell’homo homini lupus. Diventa così più chiaro che quelli sullo schermo potremmo veramente essere noi (anche se, noi, non abbiamo mai ammazzato, come i “bravi ragazzi” di Goodfellas, e forse non abbiamo nemmeno mai rubato come Jordan Belfort [ma chissà…]). Scorsese esce dal microcosmo criminale, parlando di un mondo in cui l’illegalità è meno esibita ed evidente, e perciò meno che mai rilevante. 2) Jordan Belfort è voce narrante continua: espediente caro a Scorsese, utilizzato con effetti analoghi in “Goodfellas” e “Casinò”. Ma questa volta viene via la quarta parete: Belfort, nei familiari panni di un irresistibile Di Caprio, più e più volte guarda in macchina, parla a noi, ci coinvolge, ci rende complici. Ci fa la lezione. Come Alex in “Arancia meccanica”. Esattamente allo stesso modo di Kubrick in “Arancia meccanica”, Scorsese ci invita esplicitamente a condividere il fascino liberatorio dell’ego senza freni. Farci rendere conto che anche se il nostro super-io lo rifiuta, il nostro istinto lo riconosce bene. 3) Nell’iperbole, il registro è grottesco, il film è una commedia; a volte si ride di gusto. Scorsese sembra aver voluto essere epigono postmoderno e tarantolato delle commedie più amare di Risi e Monicelli, di cui in Italia non siamo più capaci.

Ciò che, in finale, rende dunque “The wolf of wall street” davvero originale nella filmografia di Scorsese (e diverso da film come “Goodfellas” e “Casinò“, avvicinandolo semmai maggiormente a “Re per una notte”), è che al protagonista viene costantemente negato uno statuto tragico. Jordan Belfort non merita spessore shakespeariano. E’ uomo ridicolo e basta, senza tragedia. Si esce dal cinema come drogati. La contiguità fra stile e materia narrata è stretta e avvincente. Non si contano le scene in cui è strepitoso il montaggio, visivo ma anche sonoro – vogliamo parlare della carica particolarmente espressiva di questa colonna sonora? Con pezzi come “Mrs. Robinson” di Simon & Garfunkel nella versione dei Lemonheads? Poi, smaltita la sbornia, si torna con la mente al film, e capita di pensare che la consistenza della parabola di Jordan sia equivalente a quella di una meteora che si dissolve. Alla traccia fugace dell’aereo chiamato per i soccorsi, che esplode e svanisce nel buio della notte. E capita allora di pensare che, questo effetto di sgonfiamento post-sbornia, il vuoto cui lascia lo spazio, siano esattamente ciò che Scorsese aveva previsto ci rimanesse.

Voto: 8,5

NEBRASKA: briciole di sogno americano

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NebraskaIl sogno pervicace di Woody è ciò che distingue, lui e il figlio, dalla mediocre claustrofobia di una provincia piatta, piattissima, e bianco e nera.
Un racconto, quello del minimalista Payne, affezionato a un cinema agrodolce lontano dalle luci della ribalta, che ricorda in molti tratti (personaggi, situazioni e registro narrativo) la prosa di Raymond Carver. Salvo nel finale, aperto a quel sogno irredento di Woody, contraltare di uno squallore che poi non è tanto esclusivamente “provinciale”, ma ci riguarda un po’ tutti.
Quanti saprebbero veramente come impiegarlo, quel benedetto milione? Quanti hanno sogni che possono essere realizzati facilmente con un milione?
La felicità non si compra con il denaro (luogo comune): e la popolazione umana di “Nebraska”, che in fondo è tanto universale, pur attratta dal miraggio di quei soldi non saprebbe cosa farsene, per superare la propria infelicità.
Woody, invece, almeno, vuole fuggire.
E se anche non può più guidare, vuole ancora un furgone.
Lui ha ancora SOGNI.
Questo è importante. E il figlio lo sa.
Il milione (anche se Woody per primo non lo sa) è solo un pretesto. Per continuare a sognare. Una ragione per credere. A reason to believe.

Voto: 7,5

IL CAPITALE UMANO, ovvero: della grettezza in cui è sprofondata una civiltà

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VIRZI'Virzì firma il suo film più maturo, grazie a un libero adattamento di un romanzo statunitense di S. Amidon. Felice intuizione quella di affidare il progressivo disvelamento dell’intreccio all’approfondimento di alcuni diversi caratteri (più che dei rispettivi punti di vista): di capitolo in capitolo, passando da Dino a Carla fino a Serena, scopriamo i retroscena che fanno mano a mano meglio luce sui personaggi, e quindi sul contesto.
Partendo giustamente in chiave grottesca e caricaturale, per poi passare a toni drammatici – e quindi affondando sempre più in un registro, quello del noir, piuttosto inusuale fra l’altro in Italia – Virzì si supera, grazie a una sceneggiatura magistrale soprattutto nel disegno dei personaggi e nella ben oliata calibratura dei meccanismi del racconto.
Quello che rimane del film è un desolante affresco “in absentia” degli ideali (affettivi, culturali, politici) cui l’avidità ci ha fatto abdicare. Un barlume di pallida speranza senza più lacrime viene invece affidato ai giovani che ancora non si rassegnano al contesto in cui si trovano invischiati. Con la loro residua ingenua purezza, come nell’ultimo Bertolucci, quei due ragazzi sembrano alla fine rappresentare l’ultima, utopica, Thule di una civiltà sprofondata nella propria ignorante e triste grettezza.

Nota a margine. L’ultima inquadratura (foto di sopra) non è forse un omaggio all’ultima inquadratura del film “L’enfant” dei fratelli Dardenne?… 😉

Voto: 7,5

VENUS IN FURS: la summa di Polanski.

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venereinpelliccia1Grazie alla bravura della moglie Emmanuelle Seigner, e di uno dei migliori attori francesi, Mathieu Amalric, inquietante sosia di Polanski stesso com’era una trentina d’anni fa, Roman Polanski arriva a 80 anni a girare, tutto raccolto dentro un’unica location, una pellicola che è la summa del suo cinema, e può intendersi, se vogliamo, come il suo capolavoro definitivo.
Mettendosi in gioco personalmente come uomo, entro i limiti distanzianti del grottesco, e a rischio di essere tacciato di misoginia per il modo in cui umilia il maschio (Ferreri docet) e al contempo eleva la donna a sovrumana portatrice di verità e di sciagura (Vanda è una biblica Lilith), Polanski spreme la quintessenza della propria poetica, adattando la pièce teatrale omonima di David Ives, a sua volta ispirata a un omonimo testo di letteratura erotica dell’ottocento di Leopold von Sacher-Masoch.
E’ evidente che “Venere in pelliccia” è Polanski a 18 carati, e al suo meglio. Non sappiamo quanto sia merito di Ives, ma è sopraffino come i piani scivolino fluidamente uno nell’altro, tesi e antitesi, realtà e finzione, persona e personaggio, accusa e apologia, in un trionfo di ambiguità che è di suo claustrofobico, prima ancora che lo sia l’ambientazione o l’imposizione a Thomas, da parte di Vanda, a restare chiusi dentro il teatro oltre ogni limite d’orario.
E’ la sintesi di Polanski: sono ormai 50 anni che il regista polacco, con i suoi claustrofobici film, sin da “Il coltello nell’acqua” del 1962, prova a esorcizzare con registri diversi un’identica profonda paura. Una paura che sembra rivolta, più di tutto, nel suo cuore, a ciò che è polimorfo, cangiante e inafferrabile, come la natura femminile è e sempre sarà agli occhi dell’uomo.

Voto: 8,5

STILL LIFE di Uberto Pasolini

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still_life_eddie_marsan-1-620x350Quasi punto d’incontro ben temprato fra Kaurismaki e Bresson.
Molte le reminiscenze di Kaurismaki, celate dietro una messa in scena egualmente asettica ma leggermente meno algida e surreale. 
E le vite raccolte da John May attorno al suo ultimo caso, appartengono alla stessa tipologia di umanità cara al regista finlandese.
Bresson, poi – soprattutto – come nume tutelare: non solo semplicemente per l’adesione ad una certa estetica dell’asciuttezza, ma più che altro per la visione, spietata e accorata, di un mondo popolato da uomini abissalmente soli.

L’originalità di questo gran film di Uberto Pasolini sta nella dolce ferocia con la quale non perdona al suo personaggio di non aver saputo vivere, e lo condanna a un fato che raramente è così esatto e così preciso.
Il ritratto, davvero universale, che U. Pasolini fa dell’uomo, è quello di un essere non malvagio quanto moralmente misero: alla solitudine ci condanna non il male che abbiamo fatto, ma l’incapacità di accorgerci per tempo dei nostri errori, e di dedicare il nostro tempo a provare a porvi rimedio. Prima di essere tutti uguali.

Giudizio: 8

“L’orrore, l’orrore!” THE COUNSELOR di Scott e McCarthy

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Grande messa in scena per Ridley Scott, non nuovo a sconcertanti alti e bassi. Reduce dallo sciagurato “Prometheus” (2012), Scott dirige uno dei lavori più pregevoli della sua carriera (sempre di gran lunga secondo, com’è ovvio, all’inarrivabile “Blade Runner”). Merito anzitutto della notevole sceneggiatura di Cormac McCarthy, che Scott adatta abilmente, sapendone amplificare asciuttezza, fermezza e intransigenza. Affidandosi ad ambientazioni fortemente espressive, fotografate con dettagliata freddezza, la macchina da presa è trattenuta. Scott dirige con polso saldo: non si concede virtuosismi, e si limita alla contemplazione impassibile di un universo di abiezione.

In effetti sappiamo già, dal cinema, della crudezza estrema del narcotraffico. Illuminati a riguardo, di recente, anche dal Saviano di “ZeroZeroZero”, il film di Scott comunque è talmente bello che, se non arriva a essere un capolavoro quale “Gomorra” di Garrone, è solo perché il soggetto di “The counselor”, classico, romanzesco e un pochino risaputo, difetta di particolare originalità. Tutto il resto però, nel film, è talmente perfetto da mozzare il fiato, anche grazie a quattro interpretazioni magistrali. Il cast all-star è straordinariamente in parte. Bardem è meraviglioso nella sua duttilità; Pitt non è mai stato così poco gigionesco e tanto cinico e mediocre. Cameron Diaz è trasformata in un famelico e ferino demone di ghiaccio, qui forse nel ruolo migliore della sua carriera. Fassbender è straordinario nel mimetismo con cui rende, prima, la spregiudicatezza rampante di un uomo comune che ignora il lato oscuro delle cose, e, quindi, l’aggrovigliarsi nello strazio di quest’uomo mediocre, che aveva il paradiso e ha scelto l’inferno. A loro si aggiunge, in controcanto, una dolente Penelope Cruz che fa da agnello sacrificale.

Come si diceva, la forza del film deriva dalla sceneggiatura. E’ senz’altro un film insolitamente verbale: e in ciò va trovata la sua originalità. Lungi, d’altra parte, dall’essere un film statico, “The counselor” è attraversato da una tensione che progredisce parallelamente all’incupirsi della tragedia, mentre il cielo resta splendido e luminoso, e indifferente alla meschinità umana: disinteressato alle sorti di uomini mediocri, che si trascinano all’inferno sulla superficie, ora levigata ora brulla, di un deserto che è correlativo oggettivo di un deserto morale.

E’ attraverso i dialoghi di McCarthy, filosofici senza essere retorici (sempre congrui ai personaggi e ai contesti), che si dipana l’intransigente disgusto e il disincanto di un autore ottantenne che dimostra di aver scrutato lungamente nell’abisso, e, pur avendone viste di tutti i colori, ha conservato la capacità d’indignarsi. La constatazione più amara e più forte che il film ci consegna, è che quanto maggiore sia la consapevolezza del male e delle sue conseguenze, maggiore diventa la capacità di agire nel male. Non c’è redenzione né desiderio di catarsi: affidando proprio ai più spietati le riflessioni più lucide e sagge, McCarthy apre veramente gli occhi sull’orrore. Con sguardo più che mai asciutto e disilluso.

2012-’13: UN ANNO AL CINEMA. SECONDA PARTE.

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Altri grandi film

Non è stata affatto una cattiva annata. Oltre agli 8 capolavori di cui alla prima parte di questo “speciale”, oltre a “Confessions” e “Spring breakers” che per gioco sono finiti nella top ten (e oltre a tre film bellissimi visti al festival di Roma e mai usciti in sala: “Lessons of evil” di Miike Takashi, “Spose celestiali dei Mari di pianura” di Alekseij Fedorchenko *, “Il regno delle carte” di Q), conto altri 10 grandi film. 2 sono italiani; 4 statunitensi (2 “indie”, 2 major); 2 francesi; uno danese e uno arabo.

49408Gli italiani. “Io e te”, splendido ritorno alla regia di Bernardo Bertolucci (sul quale rimando alla mia recensione), e “Viva la libertà”, splendida allegoria pirandelliana di Roberto Andò, che affida un suo testo di ricchezza prettamente di scrittura alla doppia interpretazione di Servillo, al solito immenso. Se non fossero troppo circostanziati i riferimenti all’attualità politica italica (in qualche modo, premonitori, viste le elezioni 2013), sarei sicuro che il film sarebbe un capolavoro, quantunque non spicchi per originalità di linguaggio (la regia è molto buona, ma cauta e convenzionale). Ma per apprezzarne l’eventuale universalità del messaggio, occorrerà qualche anno.

[Dall’Italia, non ho ancora potuto vedere: “Salvo” di Grassadonia e Piazza, “Su re” di Giovanni Columbu, “Un giorno devi andare” di Giorgio Diritti, “La leggenda di Kaspar Hauser” di Davide Manuli].

moonriseGli americani. Wes Anderson, con “Moonrise Kingdom”, è particolarmente ispirato, con le sue geometrie e i suoi incidenti di percorso, la sua risaputa ironia nel favoleggiare, stavolta, di bambini adulti che diventano ancora più adulti, grazie alla determinazione e al coraggio di uscire dal gruppo. “Ruby sparks” di Jonathan Dayton e Valerie Faris è un’altra favola, sulla scia di Kaufman e in assonanza con Spike Jonze (molti i punti di contatto con il – successivo – “Her” di quest’ultimo), sul solipsismo con cui saremmo più che mai tentati di centrare le storie d’amore su noi stessi: solipsismo messo in crisi e costretto a fare i conti con la benedetta imprevedibilità della relazione con l’altro. La magniloquenza un po’ boriosa di “Cloud atlas” dei Wachowski Bros., accompagnati alla regia da Tom Tykwer, sarà pure un limite; alcune trame convincono meno e se si vuole nessuna delle storie che il film intreccia, in sé sarebbe davvero memorabile. Ma occorre essere ciechi per non lasciarsi affascinare dalla capacità di montare il film con una miriade di microscopiche risonanze interne, continui rimandi, assonanze e rime, che contribuiscono più di ogni altro aspetto a convincerci che, sì, apparteniamo tutti a una vicenda che ci sovrasta, in cui si ripetono archetipi e simboli – sì, Jung ha proprio ragione – e alla quale siamo tutti indispensabili. il-grande-gatsbyQuindi mi gioco la reputazione: “Il grande Gatsby” di Baz Luhrmann. Tradisce lo spirito di Fitzgerald? E quando mai da un capolavoro della letteratura è stato tratto un capolavoro del cinema? Il Gatsby di Luhrmann non sarà un capolavoro, ma è un magnifico melò postmoderno, che replica il risultato di Moulin rouge servendosi di una fonte di maggiore spessore per raccontare sfumature più intime. Criticare il contrasto fra lirico intimismo e spumeggiante messa in scena significa non apprezzare il rimescolamento di carte operato da Luhrmann. La stereoscopia, qui essenziale, contribuisce a rendere lussureggiante lo spettacolo. Luhrmann lavora sulla superficie: è il suo limite, ma è il più bravo a fare oggi quelli che, una volta, si chiamavano kolossal.

I francesi. Con “Un sapore di ruggine e ossa”, Jacques Audiard torna a cercare forme alternative e più profonde di comunicazione, sia nelle vicende narrate, sia nel contatto che instaura con lo spettatore: parla anzitutto attraverso i sensi, prima ancora di suscitare emozioni. Con “Nella casa”, François Ozon confeziona un omaggio a Hitchcock che è soprattutto un’analisi di come nel processo creativo il voyerismo conduca all’esibizionismo. E illustra, con ironia, come l’artista e il suo fruitore si scelgano il proprio ruolo: il primo sadico, il secondo masochista. Come il buon Freud insegna.

sospettoIl sospetto” di Thomas Vinterberg è come uno specchio cristallino, per chi ha il coraggio di specchiarvisi. Ogni nostra convinzione può esser frutto di un contagio. Ogni comunità umana è un cerchio chiuso, autoescludente. Continuare a farne parte può significare dover scegliere fra la comodità di ciò che si è portati a credere e la scomodità del dubbio. Non si tratta di un fatto personale: le nostre convinzioni possono rovinare le vite degli altri.

 Last but not least, il primo film girato, in Arabia, da una donna: “La bicicletta verde” di Haifaa Al-Mansour. Un film semplice e profondo come certo cinema iraniano degli anni ’90. Tra le pieghe di una storia neorealista, con al centro una bicicletta, si intravedono i contrasti e le schizofrenie di una condizione femminile di sudditanza subita, interiorizzata ma non accettata, ancora lontana da una possibile rivendicazione di parità.

Fuori sacco, un film onestamente ingiudicabile a una prima visione: “Le streghe di Salem” di Rob Zombie. Credo sia fuorviante giudicare un’opera, provocatoria e disturbante, per la sua supposta blasfemia: ritengo sia piuttosto indice di come un horror oggi possa ancora risultare disturbante al punto da farci storcere le budella. Invece, a Zombie va riconosciuto il merito estetico di aver saputo creare qualcosa di originale in un ambito così abusato e ormai angusto come l’horror, pur citando a piene mani da Polanski (Rosemary’s baby) e, quanto a struttura e atmosfere, Lynch (il Silencio di Mulholland Drive!). Restando in piedi, con rigore, e cambiando completamente registro stilistico rispetto ai proprio film precedenti. Be’, tanto di cappello.

I …“quasi-grandi”

grande bellezzaCategoria molto personale, in cui confluiscono film che potevano anche essere capolavori, o almeno grandi film; che ho anche amato, ma in cui c’è qualche grosso limite, che non posso far finta di non aver visto. In questo gruppo, d’altra parte, confluiscono anche film (è inevitabile) che – a un’unica visione – potrei aver sottovalutato.

La grande bellezza” di Sorrentino viene per primo (rimando alla mia recensione).

Altri due film italiani sono di molto valore, e tuttavia qualcosa impedisce loro di essere davvero grandi. In “Bella addormentata” di Bellocchio, una senile delicatezza si coniuga alla giovanile, genuina immutata rabbia verso l’ipocrisia e gli schematismi mostruosi dei sistemi di valore strutturati. Se comune ai vari episodi è un tema centrale alla poetica di Bellocchio (la libertà coartata in seno alla famiglia), l’autore si apre a una nuova speranza: l’amore rende capaci di cogliere la verità. Un messaggio (didascalicamente racchiuso entro il dialogo finale fra i personaggi della Rohrwacher e di Servillo) che appare però anche un taglio del nodo gordiano, al termine del ginepraio in cui l’autore si è cacciato. Bellocchio affronta con coraggio la materia del suo film, senza riuscire a stringerla in pugno. La sfaccettatura del film in episodi soffoca la visione d’insieme. Raccontare una sola vicenda non avrebbe consentito di affrontare la complessità della materia? Ma i capolavori sanno esprimere in modo semplice la più grande complessità.

Come non apprezzare, soprattutto in tempi in cui la commedia italiana è quanto mai populista e buonista, l’acredine grottesca di “E’ stato il figlio” di Daniele Ciprì? E tuttavia la distanza che separa ciò che questo film è da quello che sarebbe potuto essere è evidente, senza scomodare Ferreri, se si ripensa ai film della coppia Ciprì-Maresco. Si percepisce una pigrizia figlia della voglia di risultare digeribile, che ne smorza in parte la ferocia.

to-the-wonder-dvdTo the wonder” di Terrence Malick verrà ricordato come un outtake di The tree of life, il che probabilmente è vero. E se anche The tree of life – che senz’altro era un capolavoro – non era esente da difetti, a maggior ragione non si può negare che qui quei difetti siano ancor più evidenti. Voce off e insistenza quasi naif su una spiritualità che risulta stucchevole. Ma io continuo a scorgere la sincerità dell’intento, l’originalità dello stile, la profondità dell’afflato. Un film eccentrico, che può essere ritenuto capolavoro o boiata: la carriera di Malick segue le orme dell’ultima fase di quella di Tarkowskij.

Les misérables” di Tom Hooper è, a suo modo (con molto mestiere e un pizzico di originalità – la scommessa vinta di far cantare gli interpreti), grande spettacolo di superficie tratto da un classico letterario, come Il grande Gatsby di Luhrmann. Quello che manca a Hooper, però, è lo stile e il tocco personale di uno che si mette in gioco, pur operando dentro il sistema.

effetti-collaterali%20locandinaEffetti collaterali” di Soderbergh è ammaliante, non solo per l’eleganza stilistica, quanto per un’inafferrabilità più profonda della semplice commistione fra drama e thriller: un film la cui forza risiede nella capacità di trasmettere il senso di inafferrabilità del reale attraverso il modo in cui il film stesso si rivela cangiante, mutante, inafferrabile.

Si sono tessute lodi particolari per “Zero dark thirty” di Kathryn Bigelow. Secondo me, gli USA post-9/11 sono ben lontani da quell’esame di coscienza risolutorio che molti hanno intravisto nell’ultima inquadratura di questo film molto macho, molto mainstream, e, come già The hurt locker, senz’altro di alta classe e di pregevole stile (cinéma-verité Hollywood-way). Forse il mio sguardo è prevenuto, ma non è romanzando gli eventi che hanno catalizzato l’opinione pubblica, assecondandone la sovraesposizione mediatica, che si può aprire gli occhi sugli errori commessi.

stoker-park-chan-wook-poster-02Non considererei a tutti gli effetti statunitense la trasferta americana di Park Chan-Wook. “Stoker” è visivamente affascinante. La messa in scena dell’ambiguo, del fatale, del mistero, dell’oscurità che segna il passaggio all’età adulta in una ragazza inquieta e introversa, è ammaliante. Il limite del film sta in una sceneggiatura che non dà spessore ai personaggi. Si vede che “Stoker” non l’ha scritto Park, che si è limitato a metterlo in scena in modo sublime, riversando nello stile il suo contribuito personale.

Womb” dell’ungherese Benedek Fliegauf è un film del 2010 (distribuito nel 2012, ad agosto) di cui ho apprezzato moltissimo la messa in scena, la capacità di esprimere significati e suggestioni spaziando dal dettaglio al campo lunghissimo (una padronanza di stile molto prossima a quella di un’analoga distopia eu-genetica, “Non lasciarmi” di Mark Romanek, sempre del 2010). Lo colloco in questo gruppo per prudenza (mi è piaciuto troppo?): più per particolare merito, che per eventuali demeriti.

locandina-Pieta-Kim-Ki-Duk-2828Non casualmente, lascio per ultimo il controverso “Pietà” di Kim Ki Duk, che ha conquistato il leone d’oro al festival di Venezia 2012, di cui ho gradito la capacità di recuperare le origini del proprio cinema, come unica maniera di superare un’impasse manierista in cui si era cacciato dopo “L’arco”, ma d’altra parte ho faticato a trovare non inverosimili, e non furbe, le pretese della trama nella seconda parte, su cui tutto il film si regge (o dovrebbe reggersi). Tutte le trame di Kim si muovono pericolosamente sul filo del rasoio di una scrittura costantemente ai limiti del paradosso: ma nel caso di “Pietà” le forzature (mi riferisco in particolare al ruolo della donna nei suoi vari twist) mi sono apparse troppo irrisolte.

***

Al festival di Roma, invece (che in concorso aveva, nel 2012, davvero signori film e signor autori), mi sono piaciuti anche “Un enfant de toi” di Jacques Doillon (regista che viene regolarmente ignorato dalla distribuzione italiana), e “A glimpse inside the mind of Charles Swan the II°”, di Roman Coppola, figlio e fratello d’arte, e co-sceneggiatore dei film di Wes Anderson: francamente ignoro il motivo per cui un film così gradevole non abbia (ancora) trovato distribuzione in Italia.

* Una pellicola di raro valore dedicata a un’etnia che ha mantenuto tradizioni pre-cristiane (i Mari), e che sopravvive in Russia in una regione degli Urali. Il film è notevole anche per la struttura, ripartita in oltre venti frammenti che costituiscono un insieme omogeneo, in forma di realismo magico (ispirato alle tradizioni di quel popolo) su femminilità e sessualità, con un occhio al Decameron di Boccaccio e uno a quello di Pasolini.

LA GRANDE BELLEZZA. Meriti e limiti dell’ultimo Sorrentino.

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Ho rivisto “La grande bellezza”. Me lo sono gustato. Terminata la visione, confermo le riserve della prima ora.

La promessa italiana per gli Oscar 2014 è sì diretto da dio, ha sì delle sequenze memorabili (soprattutto, aforismi memorabili). Ma, sinceramente, lo stile di Sorrentino arriva quasi a stuccare, nella sua maniera, per quanto si compiace di sé, sin dalla prima sequenza: con quelle avvolgenti carrellate, quelle prospettive alterate, quei movimenti di macchina con cui ti rapisce, dentro il quadro, incessantemente, quasi meccanicamente. Nell’ipnotica rapsodia di questo film, c’è ritmo e sapienza: e se alcune figure o episodi sono probabilmente troppo caricati, molti sono memorabili. Il limite del film non sta dunque nell’apparente inconcludenza del suo esser rapsodico. Anche “La dolce vita”, dichiarato riferimento e termine di paragone, era rapsodico. E non vorrei incorrere nell’equivoco per cui, secondo un severo Pasolini, l’affresco di Fellini non era un capolavoro, ma ne “La dolce vita” vi sarebbero stati piuttosto solamente “frammenti di capolavoro”.

Il limite del film di Sorrentino, che non mi appare il suo capolavoro, sta piuttosto nell’attenersi a un personaggio centrale mediocre, oltre che immobile, cui l’autore vuole bene come sempre con i suoi protagonisti, ma, stavolta, molto più bene di quanto meriti. Diversamente da quanto faceva Fellini con Marcello, Sorrentino è troppo bonario con il suo Jep Gambardella. Jep non è affatto diverso dalla mediocrità di cui si circonda. Non si salva neanche un po’, è co-responsabile. Non basta la sua graffiante ironia da Oscar Wilde dei giorni nostri. Anzi, tutta la sua consapevolezza, in realtà anziché distinguerlo in meglio, come invece Sorrentino ci fa credere, lo rende semmai più colpevole degli altri. Della propria ignavia, innanzitutto.

La società descritta da Sorrentino non è poi la nostra società, ma una sua sezione solamente. E’ l’élite bobo e radicl chic di una Roma affondata nel suo splendido marciume, da cui Sorrentino è troppo affascinato per accorgersi che questo spaccato sociale non funziona come parte per il tutto. Non rappresenta l’Italia del nostro tempo. “La grande bellezza” va allora circoscritto al ritratto, di squisito espressionismo, di una città Eterna nel suo putrido, ossimorico splendore. Oggi come ieri, e come secoli fa probabilmente. Un ritratto, quindi, non universale, come un capolavoro dovrebbe essere. Per giunta, un ritratto manierato, e a tratti persino indulgente.

2012-’13: UN ANNO AL CINEMA. PARTE PRIMA

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Premessa.

E’ di moda, in chiusa d’anno, far classifiche per l’anno solare. Io invece mi atterrò al buon vecchio anno “scolastico”. Anche perché, al cinema, in Italia soprattutto, la stagione inizia dopo ferragosto, per spegnersi lentamente, a luglio, nelle metropoli abbacinate dal solleone.
E poi, un appassionato, vuol recuperare in home video tutto quanto si è perso prima dell’estate. I quattro mesi trascorsi da agosto lo consentono (almeno in parte).

Semmai, ci sarebbe da opinare sul senso di un bilancio centrato sulla stentata distribuzione italiana, nell’era del download e dello streaming. Se poi si ha la fortuna di frequentare un festival e si vogliono far rientrare nel proprio bilancio annuale film che mai sono usciti nelle sale, i conti tornano poco, a meno di non dirselo chiaramente: il campione preso in esame è del tutto personale.
E’ un gioco. E un modo per sistematizzare le visioni, e rivalutarle con un po’ di distacco.

I film che ho visto e che ho recuperato, della scorsa annata, son per ora 66. Più un’altra decina, visti al festival del cinema di Roma del 2012. Non sono ancora riuscito a recuperare alcuni oggetti del desiderio, fra i quali mi aspetto grandi cose soprattutto dal vangelo sardo di “Su Re” e dall’orso d’oro 2013 “Il caso Kerenes”. Poi, ovviamente, non so dirvi nulla di quelli che ho deliberatamente evitato – pur nella consapevolezza che escludere comporta il rischio di mancare il capolavoro inaspettato. Ma abbiate pazienza: le commediole italiote, come le legioni dei blockbuster giocattoloni, proprio non fanno per me.

La Top Ten

Amour-1 La scorsa stagione ci ha regalato una pietra miliare: “Amour” di Michael Haneke. Insostenibile nella nudità cristallina del suo sguardo, forma, insieme a “Il nastro bianco”, la coppia dei massimi capolavori del Maestro austriaco. Mi sono chiesto a lungo se davvero un capolavoro come questo, di un cineasta con evidenti debiti verso giganti come Dreyer, Bresson e Bergman, sia una pietra miliare del cinema del XXI secolo. Il timore è sempre quello di giudicare con occhi abituati al già visto. Ma poche storie: lo sguardo di Haneke, pur con le sue ascendenze, è moderno e attualissimo, indispensabile e paradigmatico: non sarà il cinema del futuro, ma è la quintessenza del cinema di oggi.

Un gradino più in basso, sette capolavori. Uno viene dall’Italia, ed è “Reality” di Matteo Garrone, sicuramente il più importante dei giovani registi italiani.

holy-motors-locandinaSe in “Amour” risuona l’eco dei giganti, la medaglia d’argento va a un film inclassificabile, uno di quei manufatti artistici che sembrano arrivare da un altro pianeta. Un altro pianeta dove ci conoscono benissimo. “Holy Motors” ha mandato in visibilio i Chaiers du cinéma. Da un lato, ha dimostrato che Leos Carax non è stata una meteora del cinema francese; dall’altro, ha rivelato quali potenzialità possa ancora avere il cinema, se trattato come materia malleabile e autoriflettente. “Holy motors” è un film lucido e ludico, che con la levità di un sogno strambo svela la verità nella finzione, e la finzione della vita quotidiana.

Tre i film americani presenti in top ten: “Django Unchained” di Tarantino, “The master” di P.T. Anderson, “Killer Joe” di W. Friedkin (film del 2011).

django_unchained_ver8_xlgDjango Unchained” è il film più bello e importante di Tarantino dai tempi di “Pulp fiction”: quello in cui l’etica facile e di facile presa di un regista di immenso talento figurativo si fa, forse per la prima volta, adulta e sconvolgente. Più che in “Bastardi senza gloria”, che in fondo era poco più di un brillante divertissement, è con il suo Django (il suo film più “classico”) che Tarantino affronta davvero la Storia. E non potrebbe essere più sonoro lo schiaffo agli Stati Uniti, colpiti nell’orgoglio – di nazione che si fregia della bandiera della libertà – per tramite di un tedesco (Waltz, nella sua interpretazione a oggi più memorabile). E Django è un irresistibile motore di emozioni, che culmina in un crescendo disarmante.

The master”, giudicato da alcuni imperfetto, è un complesso scavo dietro le apparenze dei rapporti di forza che si creano tra esseri umani, e dentro i rapporti di dipendenza, dominio e sudditanza psicologica. Temi cari al suo autore. Non ha la potenza di un capolavoro come “There will be blood” (“Il petroliere”), ma è l’appassionato approfondimento di un discorso, sempre più ricco di sfumature. E si avvale di due mostruose interpretazioni di J. Phoenix e P.S. Hoffmann.

Che io consideri “Killer Joe” un capolavoro sorprende me per primo, ma quello raggiunto dall’ormai non più giovane Friedkin è un risultato magistrale: riproporre nel XXI secolo l’abc del noir, affogandolo in un semi-remake di “La fiamma del peccato”, seguendo gli stilemi dei Coen sino all’eccesso, attingendo a piene mani dal postmodernismo, spaventandoci (davvero) con un abisso di abominio, e al contempo prendendosi gioco dei personaggi in un tripudio di grottesco, sono veri tocchi da maestro. Inoltre, “Killer Joe” sarà ricordato per aver dato una seconda vita attoriale a Matthew McConaughey, rivelandone il talento.

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Difficile disconoscere l’importanza di “No – i giorni dell’arcobaleno”, di uno dei maggiori talenti emergenti della cinematografia mondiale, il cileno Pablo Larraín. Conclude una trilogia con la quale non tanto ri-pensa al passato, e al regime di Pinochet, quanto ci costringe a fare i conti con il presente, e con verità scomodissime. Quanto sono contigui male e bene, quanto scivolano l’uno nell’altro, facendosi indistinguibili. Quanto è misera la libertà della democrazia, e quanto è subdolo il potere. La pubblicità, i suoi canoni, messi a nudo come strumento di stordimento e rincoglionimento. E’ dunque questa la libertà per cui tanti sono morti? Un film che penetra sotto pelle, per non lasciarti più.

Infine, un altro film francese. Per “Main dans la main” di Valerie Donzelli, celebrata autrice de “La guerra è dichiarata”, mi sono spellato le mani al festival di Roma 2012. Vorrei e dovrei rivederlo, ma l’impressione è stata quella di essere incappato in una perla.

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Questi, per me, sono gli otto film migliori della scorsa annata. Siccome però qui si vuol giocare e occorre una top ten, sceglierò altri due titoli, fra grandi film inter pares con altri cui riserverò una prossima puntata di questo mio bilancio. Il motivo per cui li menziono è che si tratta di due opere, raffinatissime sotto il profilo estetico, che hanno goduto di scarsa visibilità. “Spring breakers” e “Confessions”.

imagesCASNFPOLConfessions”, del giapponese Nakashima, è un film del 2010. Se la distribuzione italiana non merita neppure un velo pietoso, merita di essere segnalato invece il valore della messa in scena di quello che non si tarda a riconoscere come un autore di grande talento cinematografico. Una regia estremamente studiata, elaborata, inventiva. Tutto in “Confessions” è godimento per gli occhi: dai ralenti al montaggio, dall’attenzione per il dettaglio ai posizionamenti della mdp. Tutto sembra significare qualcosa. Alludere. Sì: gli orientali hanno assolutamente qualche problema con il tema della vendetta. Nakashima pecca forse di ridondanza estetica, eppure mi è sembrato riuscisse a far emergere in modo non banale la banalità del male, incidendo in profondità sotto la superficie.

Spring breakers” di Harmony Korine flirta con il fascino del male. Sarebbe anche trascurabile l’ennesimo film centrato sull’attrazione che il male esercita sui giovani, soprattutto se lo si considerasse poco più di una provocazione portata all’eccesso, dove alcune adolescenti disinibite in libera uscita iniziano con una rapina e finiscono peggio. Eppure il terrore della vacuità dell’esistenza, della finzione sociale, delle regole adulte, non erano ancora stati descritti in questo modo agghiacciante e struggente al tempo stesso. E il nichilismo pervasivo, l’imputridimento del “sogno americano”, il cupio dissolvi, l’ipocrisia dominante, non erano ancora stati resi al cinema con tanta raffinatezza. Korine sembra parlare lo stesso linguaggio di Tarantino, ma il suo postmodernismo è di tutt’altro genere: ambiguo e discutibile per la contiguità con l’estetica mainstream, si rivela immediatamente un moralista che si prende parecchio sul serio.

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Joaquin Phoenix, migliore interpretazione dell’anno per “The master”.