2012-’13: UN ANNO AL CINEMA. SECONDA PARTE.

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Altri grandi film

Non è stata affatto una cattiva annata. Oltre agli 8 capolavori di cui alla prima parte di questo “speciale”, oltre a “Confessions” e “Spring breakers” che per gioco sono finiti nella top ten (e oltre a tre film bellissimi visti al festival di Roma e mai usciti in sala: “Lessons of evil” di Miike Takashi, “Spose celestiali dei Mari di pianura” di Alekseij Fedorchenko *, “Il regno delle carte” di Q), conto altri 10 grandi film. 2 sono italiani; 4 statunitensi (2 “indie”, 2 major); 2 francesi; uno danese e uno arabo.

49408Gli italiani. “Io e te”, splendido ritorno alla regia di Bernardo Bertolucci (sul quale rimando alla mia recensione), e “Viva la libertà”, splendida allegoria pirandelliana di Roberto Andò, che affida un suo testo di ricchezza prettamente di scrittura alla doppia interpretazione di Servillo, al solito immenso. Se non fossero troppo circostanziati i riferimenti all’attualità politica italica (in qualche modo, premonitori, viste le elezioni 2013), sarei sicuro che il film sarebbe un capolavoro, quantunque non spicchi per originalità di linguaggio (la regia è molto buona, ma cauta e convenzionale). Ma per apprezzarne l’eventuale universalità del messaggio, occorrerà qualche anno.

[Dall’Italia, non ho ancora potuto vedere: “Salvo” di Grassadonia e Piazza, “Su re” di Giovanni Columbu, “Un giorno devi andare” di Giorgio Diritti, “La leggenda di Kaspar Hauser” di Davide Manuli].

moonriseGli americani. Wes Anderson, con “Moonrise Kingdom”, è particolarmente ispirato, con le sue geometrie e i suoi incidenti di percorso, la sua risaputa ironia nel favoleggiare, stavolta, di bambini adulti che diventano ancora più adulti, grazie alla determinazione e al coraggio di uscire dal gruppo. “Ruby sparks” di Jonathan Dayton e Valerie Faris è un’altra favola, sulla scia di Kaufman e in assonanza con Spike Jonze (molti i punti di contatto con il – successivo – “Her” di quest’ultimo), sul solipsismo con cui saremmo più che mai tentati di centrare le storie d’amore su noi stessi: solipsismo messo in crisi e costretto a fare i conti con la benedetta imprevedibilità della relazione con l’altro. La magniloquenza un po’ boriosa di “Cloud atlas” dei Wachowski Bros., accompagnati alla regia da Tom Tykwer, sarà pure un limite; alcune trame convincono meno e se si vuole nessuna delle storie che il film intreccia, in sé sarebbe davvero memorabile. Ma occorre essere ciechi per non lasciarsi affascinare dalla capacità di montare il film con una miriade di microscopiche risonanze interne, continui rimandi, assonanze e rime, che contribuiscono più di ogni altro aspetto a convincerci che, sì, apparteniamo tutti a una vicenda che ci sovrasta, in cui si ripetono archetipi e simboli – sì, Jung ha proprio ragione – e alla quale siamo tutti indispensabili. il-grande-gatsbyQuindi mi gioco la reputazione: “Il grande Gatsby” di Baz Luhrmann. Tradisce lo spirito di Fitzgerald? E quando mai da un capolavoro della letteratura è stato tratto un capolavoro del cinema? Il Gatsby di Luhrmann non sarà un capolavoro, ma è un magnifico melò postmoderno, che replica il risultato di Moulin rouge servendosi di una fonte di maggiore spessore per raccontare sfumature più intime. Criticare il contrasto fra lirico intimismo e spumeggiante messa in scena significa non apprezzare il rimescolamento di carte operato da Luhrmann. La stereoscopia, qui essenziale, contribuisce a rendere lussureggiante lo spettacolo. Luhrmann lavora sulla superficie: è il suo limite, ma è il più bravo a fare oggi quelli che, una volta, si chiamavano kolossal.

I francesi. Con “Un sapore di ruggine e ossa”, Jacques Audiard torna a cercare forme alternative e più profonde di comunicazione, sia nelle vicende narrate, sia nel contatto che instaura con lo spettatore: parla anzitutto attraverso i sensi, prima ancora di suscitare emozioni. Con “Nella casa”, François Ozon confeziona un omaggio a Hitchcock che è soprattutto un’analisi di come nel processo creativo il voyerismo conduca all’esibizionismo. E illustra, con ironia, come l’artista e il suo fruitore si scelgano il proprio ruolo: il primo sadico, il secondo masochista. Come il buon Freud insegna.

sospettoIl sospetto” di Thomas Vinterberg è come uno specchio cristallino, per chi ha il coraggio di specchiarvisi. Ogni nostra convinzione può esser frutto di un contagio. Ogni comunità umana è un cerchio chiuso, autoescludente. Continuare a farne parte può significare dover scegliere fra la comodità di ciò che si è portati a credere e la scomodità del dubbio. Non si tratta di un fatto personale: le nostre convinzioni possono rovinare le vite degli altri.

 Last but not least, il primo film girato, in Arabia, da una donna: “La bicicletta verde” di Haifaa Al-Mansour. Un film semplice e profondo come certo cinema iraniano degli anni ’90. Tra le pieghe di una storia neorealista, con al centro una bicicletta, si intravedono i contrasti e le schizofrenie di una condizione femminile di sudditanza subita, interiorizzata ma non accettata, ancora lontana da una possibile rivendicazione di parità.

Fuori sacco, un film onestamente ingiudicabile a una prima visione: “Le streghe di Salem” di Rob Zombie. Credo sia fuorviante giudicare un’opera, provocatoria e disturbante, per la sua supposta blasfemia: ritengo sia piuttosto indice di come un horror oggi possa ancora risultare disturbante al punto da farci storcere le budella. Invece, a Zombie va riconosciuto il merito estetico di aver saputo creare qualcosa di originale in un ambito così abusato e ormai angusto come l’horror, pur citando a piene mani da Polanski (Rosemary’s baby) e, quanto a struttura e atmosfere, Lynch (il Silencio di Mulholland Drive!). Restando in piedi, con rigore, e cambiando completamente registro stilistico rispetto ai proprio film precedenti. Be’, tanto di cappello.

I …“quasi-grandi”

grande bellezzaCategoria molto personale, in cui confluiscono film che potevano anche essere capolavori, o almeno grandi film; che ho anche amato, ma in cui c’è qualche grosso limite, che non posso far finta di non aver visto. In questo gruppo, d’altra parte, confluiscono anche film (è inevitabile) che – a un’unica visione – potrei aver sottovalutato.

La grande bellezza” di Sorrentino viene per primo (rimando alla mia recensione).

Altri due film italiani sono di molto valore, e tuttavia qualcosa impedisce loro di essere davvero grandi. In “Bella addormentata” di Bellocchio, una senile delicatezza si coniuga alla giovanile, genuina immutata rabbia verso l’ipocrisia e gli schematismi mostruosi dei sistemi di valore strutturati. Se comune ai vari episodi è un tema centrale alla poetica di Bellocchio (la libertà coartata in seno alla famiglia), l’autore si apre a una nuova speranza: l’amore rende capaci di cogliere la verità. Un messaggio (didascalicamente racchiuso entro il dialogo finale fra i personaggi della Rohrwacher e di Servillo) che appare però anche un taglio del nodo gordiano, al termine del ginepraio in cui l’autore si è cacciato. Bellocchio affronta con coraggio la materia del suo film, senza riuscire a stringerla in pugno. La sfaccettatura del film in episodi soffoca la visione d’insieme. Raccontare una sola vicenda non avrebbe consentito di affrontare la complessità della materia? Ma i capolavori sanno esprimere in modo semplice la più grande complessità.

Come non apprezzare, soprattutto in tempi in cui la commedia italiana è quanto mai populista e buonista, l’acredine grottesca di “E’ stato il figlio” di Daniele Ciprì? E tuttavia la distanza che separa ciò che questo film è da quello che sarebbe potuto essere è evidente, senza scomodare Ferreri, se si ripensa ai film della coppia Ciprì-Maresco. Si percepisce una pigrizia figlia della voglia di risultare digeribile, che ne smorza in parte la ferocia.

to-the-wonder-dvdTo the wonder” di Terrence Malick verrà ricordato come un outtake di The tree of life, il che probabilmente è vero. E se anche The tree of life – che senz’altro era un capolavoro – non era esente da difetti, a maggior ragione non si può negare che qui quei difetti siano ancor più evidenti. Voce off e insistenza quasi naif su una spiritualità che risulta stucchevole. Ma io continuo a scorgere la sincerità dell’intento, l’originalità dello stile, la profondità dell’afflato. Un film eccentrico, che può essere ritenuto capolavoro o boiata: la carriera di Malick segue le orme dell’ultima fase di quella di Tarkowskij.

Les misérables” di Tom Hooper è, a suo modo (con molto mestiere e un pizzico di originalità – la scommessa vinta di far cantare gli interpreti), grande spettacolo di superficie tratto da un classico letterario, come Il grande Gatsby di Luhrmann. Quello che manca a Hooper, però, è lo stile e il tocco personale di uno che si mette in gioco, pur operando dentro il sistema.

effetti-collaterali%20locandinaEffetti collaterali” di Soderbergh è ammaliante, non solo per l’eleganza stilistica, quanto per un’inafferrabilità più profonda della semplice commistione fra drama e thriller: un film la cui forza risiede nella capacità di trasmettere il senso di inafferrabilità del reale attraverso il modo in cui il film stesso si rivela cangiante, mutante, inafferrabile.

Si sono tessute lodi particolari per “Zero dark thirty” di Kathryn Bigelow. Secondo me, gli USA post-9/11 sono ben lontani da quell’esame di coscienza risolutorio che molti hanno intravisto nell’ultima inquadratura di questo film molto macho, molto mainstream, e, come già The hurt locker, senz’altro di alta classe e di pregevole stile (cinéma-verité Hollywood-way). Forse il mio sguardo è prevenuto, ma non è romanzando gli eventi che hanno catalizzato l’opinione pubblica, assecondandone la sovraesposizione mediatica, che si può aprire gli occhi sugli errori commessi.

stoker-park-chan-wook-poster-02Non considererei a tutti gli effetti statunitense la trasferta americana di Park Chan-Wook. “Stoker” è visivamente affascinante. La messa in scena dell’ambiguo, del fatale, del mistero, dell’oscurità che segna il passaggio all’età adulta in una ragazza inquieta e introversa, è ammaliante. Il limite del film sta in una sceneggiatura che non dà spessore ai personaggi. Si vede che “Stoker” non l’ha scritto Park, che si è limitato a metterlo in scena in modo sublime, riversando nello stile il suo contribuito personale.

Womb” dell’ungherese Benedek Fliegauf è un film del 2010 (distribuito nel 2012, ad agosto) di cui ho apprezzato moltissimo la messa in scena, la capacità di esprimere significati e suggestioni spaziando dal dettaglio al campo lunghissimo (una padronanza di stile molto prossima a quella di un’analoga distopia eu-genetica, “Non lasciarmi” di Mark Romanek, sempre del 2010). Lo colloco in questo gruppo per prudenza (mi è piaciuto troppo?): più per particolare merito, che per eventuali demeriti.

locandina-Pieta-Kim-Ki-Duk-2828Non casualmente, lascio per ultimo il controverso “Pietà” di Kim Ki Duk, che ha conquistato il leone d’oro al festival di Venezia 2012, di cui ho gradito la capacità di recuperare le origini del proprio cinema, come unica maniera di superare un’impasse manierista in cui si era cacciato dopo “L’arco”, ma d’altra parte ho faticato a trovare non inverosimili, e non furbe, le pretese della trama nella seconda parte, su cui tutto il film si regge (o dovrebbe reggersi). Tutte le trame di Kim si muovono pericolosamente sul filo del rasoio di una scrittura costantemente ai limiti del paradosso: ma nel caso di “Pietà” le forzature (mi riferisco in particolare al ruolo della donna nei suoi vari twist) mi sono apparse troppo irrisolte.

***

Al festival di Roma, invece (che in concorso aveva, nel 2012, davvero signori film e signor autori), mi sono piaciuti anche “Un enfant de toi” di Jacques Doillon (regista che viene regolarmente ignorato dalla distribuzione italiana), e “A glimpse inside the mind of Charles Swan the II°”, di Roman Coppola, figlio e fratello d’arte, e co-sceneggiatore dei film di Wes Anderson: francamente ignoro il motivo per cui un film così gradevole non abbia (ancora) trovato distribuzione in Italia.

* Una pellicola di raro valore dedicata a un’etnia che ha mantenuto tradizioni pre-cristiane (i Mari), e che sopravvive in Russia in una regione degli Urali. Il film è notevole anche per la struttura, ripartita in oltre venti frammenti che costituiscono un insieme omogeneo, in forma di realismo magico (ispirato alle tradizioni di quel popolo) su femminilità e sessualità, con un occhio al Decameron di Boccaccio e uno a quello di Pasolini.

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