Il modo con cui Bellocchio esalta l’orrore insito nelle immagini di certi cinegiornali d’epoca è di altissima classe, e fa semplicemente rabbrividire. Nel discorso di Mussolini dal balcone di Piazza Venezia fanno rabbrividire anche le pause: lunghe, tremende, insopportabili. Eppure è materiale di repertorio: che ne sia così potenziata l’espressività, è prova della capacità di amplificarsi e esaltarsi dei segni all’interno di un’opera. Quelle pause non farebbero altrettanto rabbrividire, se non ci venisse raccontata una storia privata, che racconta fino a che punto possa giungere la devastazione operata nelle vite di quanti hanno la sfortuna di incrociare sul proprio cammino altri esseri, deliranti di potere (gli uomini più pericolosi che esistono?).
“Vincere” descrive la mostruosità del potere, la sua disumanità, con accenti che richiamano Goya. E a Goya fa pensare il disperato monologo del figlio di Mussolini, quando sbavante interpreta il padre. Benito Albino è schiacciato da una figura paterna insieme oggetto di culto e motivo di dannazione. Una gabbia, questa, da cui per lui è impossibile uscire. La sua imitazione pare un tragico, disperato, impossibile tentativo di esorcismo. E’ l’ennesima “bestemmia” del cinema di Bellocchio, nel suo ennesimo film sugli orrori della Famiglia: una bestemmia necessaria, e purtroppo impotente.
Far sprofondare lo spettatore per due ore in un dimenticato orrore privato è il modo più stordente per suggerire l’inconcepibile dimensione dell’orrore pubblico, quello della Storia, su cui il film si chiude.