Sceneggiato da Zavattini, come gli altri capolavori neorealisti di De Sica, al di là di tutti i meriti “Umberto D.” – film impensabile oggi, film miracoloso nella sua epoca – ha dalla sua un’originale dilatazione dei tempi narrativi, portando a definitiva maturazione, nell’ambito del neorealismo, l’attenzione per la durata del reale, diversa dalla durata drammaturgica. In ciò, al contempo si scosta dalla norma degli altri capolavori neorealisti, nella direzione di un ancor maggiore, più autentico realismo. Spianando la strada alle innovazioni del cinema moderno: restando in Italia, quelle di Antonioni in primis. Il realismo del cinema contemporaneo, poi, dai Dardenne a Kechiche – sulla scia del “cinéma-vérité” ma nondimeno anche di Bresson (pur così distante dal realismo, nelle sue intenzioni) – deve molto pure a De Sica, e a questo film in particolare.
Al di là del suo valore stilistico, cosa fa di “Umberto D.” un grande classico del XX secolo? Al di là dell’asciuttezza estrema, dell’assenza di ogni indulgenza melodrammatica o pietista, ancora fortemente presente nei precedenti capolavori zavattiniani. E al di là anche della singolare assonanza spirituale con il cinema di un altro gigante, Ozu, con la cui grandezza (penso all’affresco corale del coevo “Viaggio a Tokyo”) questa piccola novella compete ad armi pari.
“Umberto D.” è semplicemente un film che entra nel cuore come la lama di un coltello, in grado di elevare il discorso sulla solitudine dell’anziano dimenticato (tema, quello degli anziani, per lo più rimosso dalla coscienza collettiva) da tragedia sociale a tragedia universale, non solo degli anziani, ma di qualunque essere umano possa trovarsi in condizioni analoghe. E’ tanta la trasparenza, la potenza della semplicità, in questo film, che con il personaggio di Umberto D. è impossibile non identificarsi, a qualunque latitudine ed età si appartenga.