La storia la scrivono i vincitori. E quando il conflitto è un conflitto civile, e i vincitori si servono di assassini, e questi assassini non vengono mai puniti, e il mondo non se n’è mai occupato? “Mi portino pure all’Aja” dice, con leggerezza e tracotanza, senza ovviamente crederci, uno dei personaggi reali (protagonisti di questo allucinante, folgorante, geniale documentario), che all’Aja probabilmente non ci andrà mai (ma chissà?), per dei crimini commessi 50 anni fa. L’Indonesia degli anni ’60 fu teatro di un genocidio perpetrato a danno di dissidenti politici, classi emarginate, etina cinese, e altri, radunati sotto la nomea generica di “comunisti”. Affinché fossero eliminati, i militari al potere si servirono (come anche altrove) di una banda criminale legalizzata de facto. Una banda paramilitare (“Pancasila”) che esiste ancora, e prospera, contigua all’attuale governo indonesiano. Nel film ne vediamo i raduni orgogliosi, gli slogan, i riti dal taglio distintamente fascistoide.
Per avvicinare questa gente, e poterne filmare il presente insieme a famiglia e nipotini, gli autori di “The act of killing” hanno scelto di fingere di chiedere ai criminali ormai anziani e ai loro attuali scherani di mettere in scena le loro gesta efferate, al fine di portarli sullo schermo facendone un film. Enorme fascino che esercita il mezzo cinematografico! (Chiedetelo ai personaggi di Gomorra che recitano “Scarface” a memoria; o a Saviano, che ha illustrato come per esempio i malavitosi della camorra avessero imparato dai film di Tarantino una diversa, e in realtà disfunzionale, maniera di impugnare una pistola). Si usa frequentemente la parola “gangster”, in questo film: e si allude proprio al cinema di genere: i “protagonisti” di “The act of killing” sono esaltati dall’idea di potersi mettere in scena.
Lo shock, autentico, di noi spettatori, scaturisce non tanto dall’efferatezza cui si allude, e che si mima senza ritegno. Lo shock scaturisce dalla labilità provvisoria di riferimenti morali. Questa gente – qui sta il cuore del film – ha agito senza sentirsi nel torto; ha vissuto nell’impunità. E non ha mai elaborato un senso di colpa. Possibile? Che bestie siamo, o possiamo ridurci a essere, noi umani?…
“The act of killing” è un reperto documentale di enorme valore storico e cinematografico, da proiettare come prolusione a corsi universitari di storia come di estetica; oltre che – semplicemente – di cinema.
Per due ore (nella versione ridotta del film) siamo costretti a familiarizzare con gli autori di un genocidio: e per queste due ore non smettiamo di interrogarci sulla natura umana e sulle dinamiche sociologiche che possono distorcere, sino ad annullarlo, il comune senso morale (semmai ne esista uno. Che sarebbe questione non dissimile, filosoficamente, dall’interrogarsi sul fondamento del “diritto naturale” che poi è la base dei diritti dell’uomo. Solo ammettendo un diritto naturale pre-statale, infatti, è possibile ritenere legittimo perseguire, sul piano internazionale, crimini contro l’umanità come quelli del genere perpretrato in Indonesia negli anni ’60).
La messa in scena (fittizia) delle atrocità, diversi momenti di finzione esplicita in questo film (la messa in scena – estremamente verosimile – dello sterminio di un villaggio, oppure alcuni surreali sipari volutamente kitsch – come quello che fornisce al film la sua locandina – e infine persino una sequenza da musical), rendono vertiginoso e straniante il modo in cui si confrontano e si rispecchiano la realtà fattuale, il suo processo di documentazione, e la sua messa in scena narrativa. Non è scelta casuale quella di non ricorrere, come in un documentario tradizionale, a documenti visivi d’epoca. Questo è cinema del reale affine a tanto altro cinema che, in questo scorcio di XXI secolo, sta rendendo sempre più labili e indistinti i confini fra cinema di finzione e documentario (vedasi la vittoria di “Sacro Gra” al festival di Venezia di questo 2013). Con il risultato che (nella stessa epoca della massima manipolazione visiva del reale, per tramite del mezzo digitale) il cinema più importante e innovativo di questi anni sta rivendicando la centralità dello sguardo sul Reale attraverso una forma di realismo – che diverrà a noi via via più familiare – che, per adesso, sta garantendo alle immagini sullo schermo, in film come questo, una rinnovata e devastante potenza. La potenza dell’autenticità.
Giudizio: pietra miliare