SHINING

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“Shining” è fitto di incongruenze (porte che si aprono su ambienti diversi da quelli visti poco prima; percorsi impossibili del triciclo di Danny che raggiunge i piani superiori dal piano terra procedendo in piano; oggetti che scompaiono fra un campo e un controcampo; aspetto esterno dell’Overlook Hotel che varia; il labirinto esterno che in date inquadrature non esiste). Le incongruenze (apparenti errori di scena) sembrano rivolte anzitutto ad agire a livello subliminale, per destabilizzare l’orientamento, inquietare la fruizione del film e spiazzare la ricerca del senso. Ciò amplifica la sensazione che ci troviamo dentro ad un film labirintico. “Shining” è un perturbante labirinto, costellato di doppi e falsi doppi (le gemelline diverse).

Il tema del doppio è centrale. A partire dal doppio labirinto (quello esterno e quello costituito dall’albergo stesso, con i suoi corridoi e le sue labirintiche moquettes), non si contano i doppi presenti nel film (persino la macchina da scrivere è di due colori diversi, bianca in alcune scene, grigia in altre). Si passa attraverso il doppio costituito dalla convivenza fra la dimensione reale e la dimensione onirica (la realtà convive con le visioni: le “visioni” di Jack Torrance, nell’Overlook Hotel non sono presentate come visioni, ma come esperienze reali. Al contempo, sono visioni, si spiegano come visioni – pur restando, ambiguamente, del tutto reali*).  Kubrick giunge, per questa via, alla convergenza degli opposti: il tempo scorre (c’è un passato e un presente) ma il passato persiste (il tempo non esiste, o scorre in cerchio). Dunque c’è un’evoluzione della storia (dal labirinto si esce, come Danny), ma al contempo si è qui da sempre (Jack nella foto del 1921).

Le allusioni di senso sono infinite. Fra richiami alle favole – Hansel e Gretel; Pollicino – e richiami mitologici – il minotauro (il sacrificio dei giovani al mostro, il salvifico filo di Arianna); Edipo (la fuga con la madre dopo l’uccisione del padre) – sembra di dover concludere che ciò di cui il film parla sia (anche) il persistere degli orrori della Storia pur nell’oblio di essi. Vi sono rimandi, neanche troppo velati, alla fondazione degli USA, la cui espansione va di pari passo con il genocidio degli indiani d’America (l’Overlook è costruito sopra un cimitero indiano).

Shining-labirinto-jackIl labirinto in cui Jack si perde (quello della sua mente), è lo stesso da cui Danny riesce a fuggire, ricongiungendosi alla madre. E’ naturalmente Edipo, ma è anche la duplicità del destino umano: perdersi e ricominciare, in un ciclo infinito che non è nè positivo né negativo. Che bypassa le dicotomie fra “ottimismo” e “pessimismo”, tra positivismo e decadentismo, tra concezioni filosofiche occidentali (improntate alla linearità) e orientali (centrate sulla ciclicità). 

Perdersi e ricominciare. Esattamente come, in “2001”, dallo smarrimento di David scaturisce il feto astrale, alla spirale involutiva del labirinto si affianca una spirale evolutiva. I due movimenti in qualche modo si compensano e si annullano. In fondo, Kubrick sembra suggerire che siamo destinati a liberarci dalla tirannia grazie al nostro ingegno, così come a tornare inevitabilmente alla festa in maschera del 1921: che se da figli fuggiamo, come padri non usciremo dall’Overlook Hotel.

Probabilmente l’Overlook Hotel è, come l’universo in “2001”, il limite-prigione oltre i cui confini l’uomo non può procedere. L’Overlook Hotel vede (o sopra-vede) tutto. Sia ciò che è reale, sia ciò che è “visione”, è racchiuso, ricompreso e trasceso entro la cornice metafisica dell’Overlook Hotel, che è il motore immobile entro cui tutto avviene, così come il Monolito di “2001” è ciò a causa di cui tutto si produce.

Una tale complessità di temi, rimandi e allusioni, fa di “Shining” un’allegoria stratificata che, in fondo, rimane aperta all’interpretazione dello spettatore quanto e più di “2001 Odissea nello spazio”. E per questo, soprattutto, continua e continuerà ad affascinare. For ever, and ever, and ever…

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* Le esperienze del protagonista appartengono a un universo mediano tra il reale e l’onirico: un universo che riesce a essere al contempo sia reale sia onirico. Le visioni di Jack entrano solo apparentemente nelle coordinate del film di genere su di una casa infestata da fantasmi. Se si presta attenzione alla struttura narrativa del film, scopriamo che le due sequenze della Golden Room non sono affatto scisse da quanto le precede: anzi ne costituiscono l’esito. In entrambi i casi un padre di famiglia che si rifugia al bar, a bere, per sfuggire alle pressioni familiari divenute a un dato punto eccessive. La prima volta, Jack si rifugia nella Golden Room appena dopo essere stato accusato dalla moglie di esser lui la causa dei misteriosi segni sul collo di Danny (e che noi spettatori riconduciamo, invece, alla “visita” compiuta dal bambino nella stanza 237, sulla quale però è stata pur sempre operata un’ellissi. Ciò, da un lato, è uno dei fattori di ambiguità di cui è costellato il film, e d’altra parte ci fa propendere per l’innocenza di Jack, e quindi, nella circostanza, parteggiare per lui, anziché per la moglie).
La seconda visione (quella in cui Jack riceve il mandato da Mr. Grady di eliminare moglie e figlio) segue la sequenza in cui Jack afferma di non aver trovato nulla nella stanza 237, ma -stavolta – ci sembra mentire, alla luce di quanto visto (in un trionfo di ambiguità, abbiamo assistito ad Halloran che vede Danny (oppure entrambi vedono insieme) che vede – forse – il padre, nella stanza 237, il quale vede una ragazza nuda uscire dalla doccia, baciarlo, e trasformarsi in una vecchia in putrefazione la quale, contemporaneamente, avanza verso di lui e se ne sta distesa nella vasca, iniziando ad emergerne). Jack subisce sempre più il peso del proprio crescente isolamento all’interno del nucleo familiare (che vorrebbe invece tenere in pugno), e il peso della propria decisione di restare all’Hotel a dispetto della volontà della moglie, della propria inettitudine, e dei propri fantasmi.
Dunque: entrambe le visioni che hanno luogo nella Golden Room possono spiegarsi agevolmente come prodotto della mente di Jack sotto il peso dello stress e della tensione. Il discorso di Mr. Grady esplicita una vera e propria rivendicazione del ruolo di padre di famiglia autoritario che “mette in riga”, disciplina moglie e figlio. Ma Jack, debole e frustrato, non conosce l’essenza di dominio, potenza e violenza di questa pulsione: ha bisogno che gli venga proposta da qualcuno. Sembra plausibile perciò leggere le visioni di Jack come creazioni del suo inconscio – un inconscio che traduce e mette in scena ciò che, razionalmente, Jack non sarebbe in grado di elaborare da sè. L’efficacia di questa messa in scena sta nel suo assoluta realismo. Le due scene, inverosimili in un contesto normale, sembrano realmente realizzarsi, lì all’Overlook Hotel. Non sono presentate come visioni, ma come esperienze reali. Al contempo, sono visioni, si spiegano come visioni – pur restando, ambiguamente, del tutto reali.
Soltanto quando qualcosa libera Jack dalla dispensa, risulta chiara la presenza di forze sovrannaturali. Ciò paradossalmente conferma la bi-dimensionalità del film, che è onirico e reale al contempo. Infatti, non possiamo dire che le forze sovrannaturali siano solamente oniriche: non potrebbero intervenire nella realtà. Qui invece lo fanno. Dunque sono reali. Il momento in cui M. Grady apre la dispensa, rafforza, in modo geniale, e vertiginosamente ambiguo, proprio la sensazione di realtà delle visioni.


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