Un terremoto a Hollywood. La destrutturazione del linguaggio, quasi godardiana, comunque “postmoderna”, non era mai stata così mainstream.
Il racconto è scomposto, dilatato, si concentra sul dettaglio inaspettato e ne fa il centro motore del racconto; poi si riavvolge su se stesso e incastra i flashback in modo inusitato (fotografando en passant un ritratto serissimo di questa nostra civiltà di bamboccioni). E anziché risultare un divertimento astruso per cinefili, riesce a elettrizzare. Perché sa fare un uso preciso e consapevole dei meccanismi tradizionali del racconto cinematografico.
Rispetto alla post-modernità stratificata, complessa e affascinante di Lynch, Tarantino appare obiettivamente un artefice di giocattoloni (D.F. Wallace dixit). Comunque la si pensi, “Pulp fiction” resta la dimostrazione strepitosa che al cinema si può osare il nuovo e allo stesso tempo piacere a tutti, più e meglio di un blockbuster che stancamente ripete stilemi sicuri pur di far rientrare gli incassi.
Qui un mio articolo su “Pulp fiction” (da filmscoop)