LETTERE DA IWO JIMA, Clint Eastwood

iwo jimaIl più bel film di Clint Eastwood si pone anzitutto come omaggio a colui che è stato il nemico, e non disdegna autocritiche raramente così esplicite nel cinema statunitense, come nella scena in cui dei soldati americani assassinano i due giapponesi che si erano arresi.

Nella prima parte del film, prima della battaglia, può venir da chiedersi quanto sia antimilitarista un film che pare incentrato sulla figura di un generale (il superbo Ken Watanabe) che non può contemplare l’ipotesi della resa pur di fronte a una inevitabile sconfitta, una resa che salverebbe le vite di migliaia di ragazzi. Resa impossibile, sia per l’etica nipponica, sia per mere ragioni di comando militare.

Ma è proprio a partire dalla descrizione di una figura dai valori militari tanto integri, che emerge la potenza umanista del film. La seconda parte dipinge, con toni altissimi, l’orrore immenso e la devastante insensatezza della guerra. I ralenti, la colonna sonora intimista (un delicatissimo sottofondo di piano dal sapore vagamente nipponico), il precipitare – potentemente espressivo – nelle tenebre delle gallerie (la fotografia è meravigliosa): tutto concorre ad esaltare un affresco complesso, magnifico e durissimo.
La dolorosa scena finale della scoperta “archeologica” delle lettere esprime con intensità l’immanenza materiale del passato.

Lo stile di Eastwood è asciutto quanto l’isola vulcanica di Iwo Jima è spoglia e nera; viene in mente – per contrasto – l’analoga relazione tra stile e ambiente che s’instaura tra l’umanesimo di Malick e la natura (in quel caso lussureggiante) dell’isola tropicale di Guadalcanal ne “La sottile linea rossa”.
Aver estratto dal nero – il colore dominante del film – una scintilla di umanità non arresa all’orrore, è il pregio estetico più grande di un film memorabile.


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