“La dolce vita” , rispetto a “Otto e mezzo”, è come una “Comedie humaine” di Balzac rispetto a “La recherche” di Proust: come un monumento di realismo, centrato sulla società, rispetto all’introspezione individuale e al monologo interiore.
“La dolce vita” è già destrutturato narrativamente, rispetto ai canoni cinematografici convenzionali, ma mantiene una progressione cronologica lineare, procede per giustapposizione di quadri, sequenze autonome che nel loro insieme dipingono un superbo affresco corale, attraverso il quale ci muoviamo seguendo la figura di Marcello.
Si parlò tanto di “alienazione”, cinquant’anni fa, a proposito dei contemporanei lavori di Antonioni: ma l’alienazione dell’uomo moderno è tutta presente anche ne “La dolce vita”. L’inquietudine dell’uomo moderno (che sia il mostruoso intellettuale Steiner o la frustrata, povera Emma piccoloborghese) si rivela attraverso una perenne pulsione di evasione. L’esotismo domina il film: esotica la biondona americana quanto i fantasmi della villa. Esotico e persino bello può essere il mostro marino della fine, come esotico e decontestualizzato appare all’inizio il Cristo portato dall’elicottero.
Tutto è svago potenziale, stimolo di alienazione per fuggire il vuoto e l’alienazione di un’esistenza che si ritrova spiazzata tra la tradizione in cui non si riconosce più, e l’ignoto fatto di miraggi illusori – figli del boom – nati oltreoceano e irraggiungibili, nella loro essenza di miraggi. Chimere.
Roma è una provincia dell’impero (americano): provinciali sono i “paparazzi” di fronte ai divi del cinema. Eppure, anche Roma può apparire un’America, per il padre di Marcello che proviene dalla sonnolenta provincia della provincia.
La provincia della provincia cerca di adeguarsi alle logiche snaturanti della società dell’immagine, e già i bambini sembrano istruiti a recitare, come una finzione circense, fantomatiche apparizioni mariane, e attrarre su di sé i riflettori (letteralmente) del grande circo mediatico. Un circo, quello mediatico, in cui da allora siamo immersi, e che Fellini registra sul nascere.
C’è una evidente sfasatura tra radici che si sono perse, e in cui non ci si riconosce più, e una modernità che sembra ancora “troppo oltre” a questa provincia italica incantata da un edonismo luccicante che non l’ha ancora uccisa per overdose. Ed il film ricavò il suo strano fascino da questo velo di sogno ancora non del tutto livido, come pure, a guardarlo oggi, appare (tanto da far male).
Persi in questa sfasatura, ci ritroviamo insieme a Marcello in mezzo a una desolante terra di nessuno, senza riferimenti, senza stimoli, e senza più incentivi.
Un film-disvelamento, che ha denudato e ancora ci denuda, implacabilmente: senza lasciare le vesti addosso a nessuno.
Un capolavoro monumentale, in profonda risonanza col presente.