“Il regista di matrimoni” può essere considerato il vertice dello stile di Bellocchio alla stessa, leggiadra maniera, con cui consideriamo capolavori di Buñuel film lievi e profondissimi come “Il fascino discreto della borghesia” o “Quell’oscuro oggetto del desiderio”. Ciò che contraddistingue “Il regista di matrimoni” è la grazia con cui descrive personaggi e contesti volgari, deformandoli con uno sguardo visionario e con un forte espressionismo onirico, in cui allo spettatore spesso non è dato discernere se ciò cui assiste è sogno o realtà.
Il tono è complessivamente più leggero e sarcastico rispetto a “L’ora di religione”; il senso più sfuggente e allusivo: meno esplicito, ma non meno aggressivo e graffiante.
Il personaggio interpretato da Castellitto, quasi un alter ego dello stesso Bellocchio, pare in questo senso proprio lo stesso protagonista de “L’ora di religione”.
Questa Sicilia, che pare quasi anacronistica, è allegoria folle, esplosiva, barocca e pirandelliana, della nostra povera Italia di questo scorcio di nuovo millennio. E vale cento “caimani”.