Non petrolio; sangue. “There will be blood“. Sono necessari 15 minuti quasi metafisici di silenzio, di rumori e grugniti, materia lurida e arti che si spezzano, per conferire al protagonista la misura tragica della sua orgogliosa solitudine, che si tramuterà in destino e infine in condanna.
Tra gli incipit più clamorosi del cinema di questo secolo, quei minuti iniziali sono necessari anche per dare atto delle fondamenta del superomismo, della misantropia, e infine della paranoia.
Quindi, a fare da filo conduttore a una parabola “rise and fall” che culmina in chiave tragico-grottesca (la sequenza nel bowling *), c’è soprattutto lo scontro fra due poteri che non accetterebbero subordinazioni reciproche: quello che deriva dalla promessa, data alla comunità, del benessere materiale, e quello che deriva dalla promessa spirituale. Due poteri a vocazione totalitaria, che però hanno bisogno l’uno dell’altro. Perché non di solo pane il popolo ha bisogno: ma neanche di solo spirito.
C’è la scomodità di una fratellanza ingombrante, di cui Daniel (interpretato da un memorabile Daniel Day-Lewis – mai oscar fu più meritato) si libera appena scopre una mistificazione.
Poi, fatalmente, lo scontro edipico: con un figlio che Daniel ha subordinato, che non accetta il suo modello, e che Daniel non può accettare come competitore.
Vorrebbe esistere solo lui. La sola esistenza di un prossimo è ormai ragione di paranoia.
Il titano è imprigionato in cima alla torre in fiamme del suo ego: da lì, può solo precipitare.
Autentica pietra miliare della cinematografia statunitense.
* La sequenza del bowling mi pare in debito con Kubrick, con le sue scene madri ambientate in ambienti fortemente stranianti rispetto al contesto del film: il bagno dove Jack Torrence dialoga con Grady in “Shining”, la stanza rococò del finale di “2001”, la sala da biliardo di “Eyes wide shut”. E l’inquadratura di sopra, non ricorda forse i due ascensori di “Shining” da cui fuoriesce un mare di sangue? There will be blood. Appunto.