Il cinema di Haneke, oltre che in Dreyer e Bresson, ha un evidente nume tutelare in Bergman (si pensi al padre padrone di “Fanny e Alexander”, e in generale ai tormenti domestici del maestro svedese, al silenzio di Dio nelle sue chiese e nelle famiglie dei suoi pastori luterani). Ma sia detto subito e chiaramente: “Il nastro bianco” non è il capolavoro che è solo perché è possibile scorgervi l’eredità di altri maestri del cinema.
Il tocco di Haneke c’è, potente e maturo: smussate alcune asprezze provocatorie nei confronti del pubblico, ne guadagna in splendore e purezza figurativa.
Nella predilezione del piano sequenza, risalta ciò che non si vede (pure se è nello schermo: come il cavo teso che fa cadere il cavallo, in apertura).
Nelle scelte di montaggio (come le inquadrature che progressivamente si allontanano dalla piazza del villaggio, nel pre-finale), risalta sempre ciò che la trama non può svelare.
Haneke, una delle cui peculiarità è il non fornire risposte alle provocazioni che enuncia, espande il suo assunto a un villaggio intero, comunità che è allegoria non solo della Germania tardo-feudale di inizio novecento, ma è una comunità in cui è possibile vedere rispecchiata qualsiasi altra comunità, da intere nazioni a singole famiglie. Vedere in questo film una parabola controversa sui “germi” del nazismo, sarebbe riduttivo, e, insieme, implicitamente auto-assolutorio da parte di chi non sia tedesco.
Come dichiarato da Haneke stesso, la sua attenzione è rivolta principalmente agli effetti terribili che scaturiscono da qualsiasi “assolutizzazione degli ideali”.
Certo, nel film si respira aria di luteranesimo e di calvinismo: quella descritta è una civiltà che mantiene il nitore pubblico, pur nelle crepe evidenti, rimuovendo la sporcizia sotto il tappeto (dilazionando l’inevitabile momento in cui sarà troppo tardi per arginare la putrefazione). Ma il cuore del film sta nell’esposizione delle dinamiche, tutte aperte, fra il principio di autorità (familiare e sociale) e il ventaglio di reazioni a tale principio. Tema centrale per la Storia (anche culturale) d’Europa (si pensi alle “radici giudaiche”, al Dio dell’Antico Testamento): in ogni epoca e ad ogni latitudine.
Gli esiti di questa dinamica non sono sintetizzati, e nemmeno interessano ad Haneke. Haneke, si diceva, è forse per eccellenza il regista che pone domande: senza fornirvi risposte. Anche perché la verità è infinitamente più complicata e inaccessibile di ogni facile ricostruzione di essa.