HUNGER, McQueen

hungerL’autorevolezza dell’esordio di Steve McQueen (finora il suo film più bello) è pari a quella di pochi altri esordi dall’altissima urgenza espressiva. La padronanza del mezzo è affascinante: bastano tre inquadrature all’inizio e capiamo di essere in mano a un artista che sa sfruttare le potenzialità del cinema per parlare un proprio linguaggio.

Nei primi 45 minuti il regista ci fa giungere gradualmente in prossimità del protagonista, uomo di cui non viene raccontato il passato al fine di renderlo totalmente uomo fra gli uomini (e l’incipit centrato sul secondino che va a lavoro è idea fenomenale).
Poi abbiamo la sequenza dell’immagine qui sopra, quella del dialogo con il prete: 17 minuti in piano sequenza in cui i virtuosismi di regia di McQueen si ritirano, per lasciare il posto alla parola: far emergere l’uomo, le sue motivazioni, la sua determinazione, la sua convinzione morale.
L’ultima mezzora è racconto bressoniano di una libertà scandalosa e paradossale. Una determinazione muta. I rimandi alla simbologia cristiana non sono pochi: quella raccontata da McQueen è a modo suo una imitazione di cristo. La passione di Bobby Sands si svela per quell’esperienza inimmaginabile che è, che il regista ha saputo tradurre in immagini di estremo rigore ed estrema inventiva.


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