FERRO 3

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Nella fase centrale della sua carriera ha sfornato alcuni capolavori destinati forse a entrare nell’empireo dei classici immortali, Kim Ki Duk, questo singolare regista coreano autodidatta, che ha goduto di un momento di gloria tra i cinefili occidentali grazie proprio al lirismo prescelto per pellicole come questa – salvo poi recuperare, dopo una fase di esaurimento personale e di poetica, stilemi pregressi.

“Ferro 3” è una favola che si nutre di una regia ispiratissima, saldata in modo clamoroso al motiva dominante dell’opera: la leggerezza.
La messa in scena è all’insegna della perdita di peso e della levità. Kim Ki Duk sa di cosa sta parlando: infatti, nella parte centrale del film, come in un’antitesi necessaria, mette in scena la crudezza. Ma è solo per farne scaturire una definitiva maturazione verso una levità prossima all’incorporeità e all’evanescenza dello spirito.

Cos’è più reale? Quello che percepiamo in superficie, l’apparenza delle cose, i rapporti codificati, la logica del possesso – o non piuttosto quello che si nasconde agli occhi, ciò che non possiede forma che lo inquadri, ciò che sfugge di continuo ad ogni incasellamento, che rifiuta le logiche (borghesi…) del possesso (l’avere) per accedere a una dimensione più sostanziale dell’essere, che è invisibile?
Mirabile leggerezza baciata dalla grazia, per raccontare l’essenziale.

Note a margine.
Il protagonista non viene mai mostrato come un fantasma, come puro spirito, pur mantenendone tutte le caratteristiche. Anche la bilancia del finale potrebbe segnare “zero” solamente perché precedentemente manomessa da Lei.
A un certo punto del film, Lui copre, su di una foto, gli occhi del propietario di una delle case (quello con i guantoni da boxe). Come dire: “tu non ci vedi veramente”. E quindi: “non mi vedi, in te non ha spazio la dimensione in cui mi muovo io: puoi soltanto percepirla”.
L’inquadratura sulla tuta di Lui prigioniero, quando il secondino non lo trova, e vede inizialmente solo la sua tuta afflosciata a terra, non posso fare a meno di paragonarla a quel passo dei vangeli in cui, entrati nel sepolcro, i discepoli trovano il sudario di Cristo afflosciato su se stesso. C’è un rimando al tema di Resurrezione del Corpo, in questo film del cristiano Kim Ki Duk (non faccio questa affermazione – sia chiaro – per aggiungere un elemento di “valore” di significato al film, ma unicamente come notazione estetica sul piano dei significanti).


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