“Fanny e Alexander” racconta la fine di un’età dell’oro.
L’età dell’oro è l’infanzia lontana, il cui sogno può sopravvivere solo nell’arte, che è lo specchio della sozzura della vita reale, e – in Bergman – il solo modo per tentare una catarsi.
In quest’opera, Bergman trova magicamente i toni per indicare quella grande armonia sognata e perduta con l’infanzia.
Prima ancora di essere cacciato dall’eden dell’infanzia, la vaga angoscia di Alexander bambino è premonizione delle angosce della vita.
Il vescovo patrigno Vergerus è quel padre la cui ombra e la cui mano di ghiaccio raggela l’intera vita di Bergman. Dalla figura di questo padre scaturisce l’angoscia, tipicamente bergmaniana, per il male di cui l’uomo è capace, e per una serenità divina ritenuta inaccessibile.
L’arte (il cinema; il teatro) dev’essere fedele, il più fedele possibile agli abissi di cui siamo capaci. In tal modo fedele ha tentato di essere Bergman, crudelmente spietato, anzitutto verso se stesso, in tutta la sua opera: di cui “Fanny e Alexander” è il più magico e incantevole suggello.