Con ADDIO AL LINGUAGGIO, Jean-Luc Godard ci invita a tornare a dialogare, per ricomporre i pezzi di un mondo dove persino lo sguardo non comunica più con se stesso.

GODARD

Jean-Luc Godard, maestro della Nouvelle Vague, impertinente e impenitente genio della sperimentazione visiva e intellettuale, sforna a 84 anni un provocatorio “Addio al linguaggio” che, anziché opera di chiusura e addio come da titolo, è film che apre e scardina. A cominciare da un uso del 3D che, se non potrà certo essere preso a modello e imitato alla lettera, dimostra però quante possano essere le possibilità celate e ancora da inventare (in-venio, rinvenire) di questa tecnica e dunque, per esteso, del linguaggio cinematografico tutto.

“Addio al linguaggio” (che, sia chiaro, non ha una trama: come quasi tutta l’opera di Godard dai tardi anni ’60 in poi, è antinarrativo per statuto) è film tutto incentrato sui temi del doppio e della separazione. La pellicola ha un’idea centrale molto forte che potremmo forse definire “dialettica priva di sintesi”, nel senso di tramonto delle possibilità comunicative. Genialmente, Godard si avvale della tridimensionalità per spiegare il concetto (ribadendolo continuamente attraverso gli ostacoli che pone alla visione). Tutto è doppio. Anzitutto lo sguardo. Che è la sintesi della diversa prospettiva di 2 occhi. Da lì nasce la tridimensionalità. E, dunque, la profondità. Ecco: la sintesi. Godard vuole affermare che la sintesi è divenuta difficoltosa, se non impossibile: perciò scinde tutto, lasciando i suoi doppi separati, privi di sintesi. Tutto è scisso – a partire dallo sguardo – in “Addio al linguaggio”.

Il film è costellato di doppi; ogni doppio è un contrasto, una dicotomia, una sovrapposizione e una scissione. L’eventuale ricongiunzione è affidata a un cane (al cui latrato si sovrappone, prima dei titoli di coda, il vagito di un bambino: ennesima sovrapposizione/scissione). Abbiamo provato ad appuntare alcuni dei tantissimi doppi che Godard menziona esplicitamente nel corso del film. Già nelle didascalie dei titoli di testa, abbiamo subito una serie di tre: 2D vs 3D, Immaginazione verso Realtà, Pensiero vs Non-pensiero (quest’ultimo doppio è ribadito dalla didascalia con cui il film si chiude: “resta da vedere se il Non-pensiero contamini il Pensiero“).

I primi minuti del film hanno una tematica politica, incentrata sulla polarità Società vs Stato: Godard esprime una provocatoria proposta, di sapore vagamente anarchico: la nostra società ha riposto troppe aspettative nello Stato. E’ ora di liberarsi dello Stato: ché la Società provveda da sé, senza delegare a quel moloch o totem che è lo Stato. Se l’ostacolo è lo Stato, freghiamolo svuotandolo anziché avversandolo.

Poi il film prosegue, diviso in due parti, intitolate rispettivamente Metafora e Natura. Dunque, Metafora vs Natura. In esse, fra le tante cose, si discetta di eguaglianza di genere, e si pone il confronto fra femminino e mascolino, che è visto da Godard come specie del confronto fra natura e civilizzazione (dove l’elemento femminino è legato alla natura come l’elemento mascolino alla civilizzazione): la stessa polarità su cui si fondava tutto “Il disprezzo”, meraviglioso, struggente film del 1962 con Brigitte Bardot, Michel Piccoli e Fritz Lang. In queste due sezioni di film, Godard pone, attraverso le parole dei suoi personaggi e del suo narratore extradiegetico, tutta una serie di altri doppi: Sesso vs Morte, Infinito vs Zero, Sé vs Personaggio (“Non ho mai sopportato i personaggi“, dice la donna a proposito della recitazione), Vivere vs Raccontare, Assenza di nudità in natura (per il cane come per gli animali in genere, non si dà il concetto di nudità, perché solo l’uomo conosce il pudore) vs Nudità umana (esibita a oltranza nel film), Vedere vs Non-vedere (si cita Monet, non si sa se in maniera apocrifa: “l’obiettivo è dipingere il non vedere“; ma il film è tutto costellato di sfondi neri, spesso prolungati, che sono un ostacolo alla visione e postulano il “non vedere”, e dunque, per contro, ridanno valore alla visione), Scorrere del tempo vs Fermo-immagine (vi sono tantissimi rapidi fermo-immagine nel film).

In tutti questi doppi che abbiamo elencato, il primo elemento del doppio ha un’accezione positiva, il secondo negativa. Con una sola notevole eccezione, sufficiente a confondere tutto: il doppio-madre, quello dei due capitoli (Metafora e Natura), non è connotato in questo senso positivo-negativo. Anzi la natura è positiva almeno quanto la metafora (l’immaginazione, il pensiero): è alla natura che appartiene lo sguardo del cane, in-cosciente. Puro? Ecco un altro doppio: Sguardo-incosciente (del cane) vs Sguardo-cosciente dell’Uomo (concepito, in questo caso, se non come negativo, quanto meno come “problematico”. Perché Godard ci sta invitando alla purezza, a resettare lo sguardo, a guardare, insomma, al mondo con lo sguardo del cane, puro come quello di un bimbo (ah, ecco perché il vagito finale sul latrato. Forse).

E veniamo all’uso del 3D. L’occhio destro (a volte) non sa quello che vede il sinistro. Nel senso proprio che, in un paio di momenti, la visione si scinde, e all’occhio destro viene proposta una scena mentre in contemporanea all’occhio sinistro ne viene proposta una diversa. Godard insiste sulla difficoltà di dialogo: in quei momenti, diventa impossibilità (di dialogo fra i due occhi, di messa a fuoco, e quindi di visione). La profondità, Godard ci ricorda in tal modo, è data anzitutto dal dialogo tra i due occhi. Allo stesso modo, la profondità di riflessione (o di immaginazione) procede dal dialogo fra punti di vista diversi. Dalla comunicazione fra due tesi. Se non ci si parla, viceversa, non si può più capire.

Né si dà profondità di sguardo senza ostacoli alla visione. Allo stesso modo, non si dà profondità di pensiero senza dialettica fra prospettive. Ecco che nel film sentiamo pronunciare queste frasi: “è difficile far entrare il piano nella profondità“; “dipingere un bosco è facile; dipingere un bosco attraverso una stanza è difficile“; “gli Apache dicono ‘foresta’ per dire ‘mondo’” (la foresta è un luogo fitto di ostacoli allo sguardo). Il film è costellato di ostacoli alla visione. Il 3D taglia a un occhio parte del quadro visibile al secondo occhio (attraverso porte o oggetti in primo piano che impediscono a uno dei due occhi la visione completa permessa all’altro occhio). Vi sono insistiti tagli improvvisi di montaggio (audio e video), le inquadrature sono ritagliate senza parti usuali in un’inquadratura canonica (tipicamente, i volti delle persone, spesso tagliati da Godard). La fotografia è spesso fortemente contrastata e filtrata.

Altri doppi, ancora: Godard scompone e ricompone “Adieu” (“addio”) in “Ah Dieux!” (“ah, Dei!”) e “Au Langage” (“al linguaggio”) in “Oh, Langage!” (“oh, linguaggio!”). Godard scherza; ma fa molto sul serio. Ci parla di un mondo che sta perdendo la capacità di dialogare, e pare volerci provocare per lasciarci in eredità il compito di ricostruire un linguaggio a partire da frammenti dissociati.

Che l’occhio destro torni a parlare col sinistro! Che torni la profondità dello sguardo! Altrimenti…addio al linguaggio.


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