BIG FISH, Tim Burton

big_fish-sample1L’Edward Bloom di “Big Fish” è il classico personaggio burtoniano che vive in un mondo di sogni tutto suo, che non riesce a trasmettere, comunicare, condividere con colui da cui più vorrebbe essere amato (e che vorrebbe rendere felice): suo figlio. Edward Bloom è un alter ego di altri due Edward (mani di forbice ed Ed Wood) e di Jack Skellington, il malinconico protagonista di “Nightmare before Christmas”. Un alter ego di Tim Burton stesso.
Il figlio è l’incarnazione di quell’incapacità di sognare che contraddistingue la società “adulta”, affogata nelle convenzioni, che ha perso la magia dell’infanzia.

E’ una favola, dolcissima, che emoziona senza scadere nella retorica, senza eccedere né scadere nel buonismo. La riconciliazione tra padre e figlio, c’è; appena accennata. E avviene nel momento in cui il padre chiude gli occhi, mentre il figlio si libera finalmente del suo blocco e assume su di sé il ruolo del padre – raccontando per la prima volta lui una favola lui al padre, che gli ha chiesto di rendere fiabesca la sua fine.

Come sempre in Burton, la morte non è vista come antitesi della vita. Non è lieta, certo, è malinconica, ma non tragica. Una composta cerimonia funebre, addolcita dalla lietezza di tanti personaggi che si riuniscono in onore di un amico straordinario, fa da contrappunto reale all’allegorica lieta fine in cui la fantasia non può morire, non può cessare di restar viva e nuotare libera.

Mai attaccare le scarpe al chiodo: ma quando si incontra l’amore il tempo si ferma. Nel film, il dilemma tra inseguire all’infinito i propri sogni (perdendosi nella vanità), o illudersi di trovarli, stringerli in pugno e realizzarli per poi invece accorgersi di aver affogato nella parvenza di una sicurezza la propria indole libera, è magnificamente risolto: non viene mai indicata una soluzione o l’altra, viene idealmente dichiarato possibile coniugare la libertà personale a una genuina fedeltà coniugale per tutta la vita.


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