BARRY LYNDON

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Il caso, la sorte, l’alterna fortuna; insomma la vita.
Ma soprattutto: la falsità, la menzogna, l’ipocrisia. Dell’uomo; di un secolo.
Lo scacco e il fallimento: il film batte su accenti di sarcasmo per un’ora e mezza; poi, nella seconda parte, simmetrica alla prima, il sarcasmo si converte gradualmente, inesorabilmente, in tragedia. Una tragedia che risulta ancora più disperata e lancinante, dacché prima si era quasi scherzato.
La razionalità del “secolo dei lumi” è messa alla berlina nella prima parte; quindi, il fallimento della progettualità si muta in sconfitta esistenziale.

Non c’è film più devastante di “Barry Lyndon”.
Il ripetuto ricorso, quasi opprimente verso la fine, alla “Sarabanda” di Haendel segna l’ineluttabile inesorabilità con cui il fato travolge chi s’era illuso di possedere la propria vita, e di tenere in pugno le sorti del proprio destino.
Dal brano di Haendel, Kubrick estrae un potenziale di tristezza indicibile. Eppure mantiene un superbo distacco rispetto alla materia narrativa: il lucido distacco dei grandi classici.
In questo distacco di Kubrick c’è una ferocia sottile. La grandezza di “Barry Lyndon” deve moltissimo alla capacità del suo regista di guardare l’universo che descrive con un cannocchiale rovesciato, come da un altro pianeta (o, forse, da un altro secolo). “Ora sono tutti uguali”, recita l’epigrafe finale.
Lo zoom, su cui tutto il film si regge, è sempre all’indietro. Dal particolare all’universale. Dal singolo al contesto. E’ un allontanamento. Un costante, ripetuto, insistente distanziamento dello spettatore. E nonostante questa operazione di allontamento, questa presa di distanza, il film coinvolge via via maggiormente.
“Barry Lydon” è Tragedia moderna. Un Settecento mitizzato, ad uso e ammonimento per gli uomini del XX e del XXI secolo. E dei secoli a venire.

“Barry Lyndon” è, anche, nuova variazione sul tema dell’ “Odissea”, in cui un rilievo importante è affidato all’assenza di padre, alla mancanza di un padre: in breve, alla figura di Telemaco.


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