Il mondo reale è malsano, nel cinema di Kim Ki-duk. Là fuori, sulla terra, nella società, l’uomo fa male a se stesso. L’individuo, terreno fertile per passioni che generano sentimenti di morte (per riecheggiare il maestro di “Primavera, estate, autunno, inverno …e ancora primavera”), a contatto con altri individui precipita in un inferno morale, dove è arduo assegnare colpe e innocenze (come “La samaritana” insegna).
Distanti da terra, sospesi sull’acqua, vivono il vecchio e la fanciulla de “L’arco”. Appartati dal mondo reale vivevano anche i personaggi di “Primavera, estate, autunno, inverno …e ancora primavera”. Altrettanto, se non più appartato, era anche il protagonista di “Ferro 3 – la casa vuota”, che attraversava, penetrava il reale, restandone immune.
Facile instaurare un parallelo di superficie, tra i protagonisti de “L’Arco” e quelli di “Ferro 3 – la casa vuota”: il giovane de “L’Arco”, proprio come il protagonista di “Ferro 3 – la casa vuota”, libera una fanciulla segregata, dalla libertà e vitalità compresse. E’ un archetipo narrativo di base, lo stesso che ispira i miti e le fiabe dove un giovane cavaliere giunge a liberare una principessa prigioniera.
Colui che, però, proprio non ci sta al confronto con il grigio marito della protagonista di “Ferro 3 – la casa vuota”, è il vecchio arciere de “L’Arco”. E a ragione. Kim Ki-duk descrive il rapporto tra il vecchio e la fanciulla con una tenerezza selvaggia, con una sensibilità, per il cuore di quel burbero arciere, che trascende il giudizio, fondato sul senso comune, per cui quel vecchio sarebbe un depravato sequestratore di una bambina che ora è un’affascinante fanciulla in fiore.
Il rapporto tra il vecchio e la fanciulla si avvicina, invece, a quello tra maestro e allievo in “Primavera, estate, autunno, inverno …e ancora primavera”. Ad accomunarli, l’isolamento su di una dimora galleggiante, appartata e lontana dalle brutture del mondo: in un’armonia resa, in apertura di film, da uno splendore di melodie e colori. L’evoluzione dei rapporti è similare. Ne “L’arco”, la fanciulla conosce un ragazzo e desidera andar via con lui; in “Primavera, estate, autunno, inverno …e ancora primavera” avveniva che l’allievo abbandonava per una donna il tempio galleggiante. Se il legame tra allievo e maestro appariva sano, nel rapporto fra il vecchio e la fanciulla c’è qualcosa di apparentemente insano, ma che non è insano come appare, e che ad ogni modo non può durare: perché la ragazza, semplicemente, non lo vuole. Il sogno del vecchio è infranto. Il vecchio comprende, lascia andare la ragazza. Decide di togliersi la vita, ma il tentativo non gli riesce. Forse perché ancora preda delle passioni? Proprio perché intrappolato nelle proprie passioni, anche l’allievo di “Primavera, estate, autunno, inverno …e ancora primavera” non era riuscito a uccidersi.
La fanciulla intuisce, comprende, fa ritorno, salva il vecchio. Da questo momento, il ragazzo pure sembra comprendere. Ora, guarda al vecchio con rispetto. Si sposeranno, il vecchio e la fanciulla? Un rito viene celebrato. Quanto basta, forse, perché il sogno del vecchio possa dirsi coronato. La fanciulla sembra aver accondisceso, con affetto, a rimettersi nelle sue mani. Ma è un’unione che non può resistere. Ora che ha ritrovato la mano che di notte stringeva con tenerezza, ora che quella mano si è offerta a lui spontaneamente, il vecchio può eclissarsi, scomparire nel mare. Come per il maestro di “Primavera, estate, autunno, inverno …e ancora primavera”, il suo ruolo si è compiuto.
Con la sua ultima freccia il vecchio, divenuto spirito, conquista la verginità della fanciulla, in un amplesso a tre che supera le coordinate temporali della realtà, e riformula il finale di “Ferro 3 – la casa vuota”. Il vecchio insegue per qualche istante il suo amore che si allontana: la barca, ormai deserta, per un poco segue l’altra, prima di affondare, definitivamente.
La fanciulla col ragazzo sta per approdare sul continente: sul mondo reale, con le sue brutture. Cosa ci sarà dopo l’idillio? Una storia di sangue come quella di “Primavera, estate, autunno, inverno …e ancora primavera” prima che l’allievo torni al tempio? Ci sarà comunque il mondo crudele dei film di Kim Ki-duk, cui la coppia non potrà sottrarsi.
Kim Ki Duk ha raccontato una favola: in questo senso, “L’arco” è più vicino all’utopia di “Ferro 3 – la casa vuota” di quanto non sia a “Primavera, estate, autunno, inverno …e ancora primavera”, che era piuttosto un apologo morale. Ma c’è una differenza. “Ferro 3 – la casa vuota” nell’utopia ci credeva. C’era un percorso verso l’alleggerimento, fino allo stato fantasmatico, alla levità raggiunta. “L’Arco” si ferma prima. Sul lieto fine incombe un’ombra luttuosa, come un presagio di morte.
La pellicola compone frammenti della poetica di Kim Ki-duk, in forte odore di manierismo. Un difetto? Non ci sembra. “L’Arco”, nel confrontarsi con l’archetipo di cui si diceva – il vecchio, la fanciulla, il giovane – mette in scena qualcosa di nuovo nel cinema di Kim: il conflitto e l’inevitabile sorpasso tra generazioni. Approccia il tema con una purezza e un’indipendenza morale genuine, senza rimandi se non alle opere precedenti dello stesso autore. Con un lirismo visivo, estenuato, di cui non si può negare lo splendore.
Kim Ki-duk, prima di esaurire la sua vena più ispirata nella parabola discendente di pellicole quali “Time”, “Soffio” e “Dream” – con le quali ha finito inevitabilmente per ripetersi e opacizzarsi –, prima di eclissarsi per un periodo di crisi creativa da cui è riemerso di recente, con “L’arco” realizzò il suo film più semplice, forse il più docile, sicuramente il più dolce. Non per questo il meno profondo. “L’Arco” è, per Kim Ki-duk, ciò che il piccolo e dimenticato “Ju Ha” era stato per Aki Kaurismaki.