Qual è il punto focale di “Apocalypse now”, l’orrore della guerra, o l’orrore della civiltà occidentale tutta? In ogni caso l’interrogativo non è circostanziato al Vietnam. Il Vietnam è allegoria di qualcosa di più grande. Credo Coppola ambisse, tramite Conrad, a svelare l’orrore della civiltà occidentale stessa, prima che della guerra in senso lato.
Cosa significa che “Apocalypse now” sia un film sull’orrore della civiltà occidentale?
La civiltà occidentale è coloniale. Il colonialismo è specie dell’espansionismo, tipico di ogni civiltà urbanizzata. Le civiltà si espandono con la guerra; a supporto, la retorica delle classi sacerdotali. Quella occidentale ha una peculiarità: il cristianesimo (come l’islam) ha vocazione universale e pretende di valere per ogni civiltà, non solo per la propria. Anche se in “Apocalypse now” il cristianesimo è marginale, tuttavia esso rileva, perché è la giustificazione etica della conversione dei popoli ad aver posto, nei secoli passati, le basi per il senso di superiorità che ha contraddistinto gli orrori della civiltà occidentale.
Il medesimo senso di superiorità, vivo ancora anche se ormai scisso da una non più necessaria giustificazione etica di natura religiosa, è alla radice del Male che fa mostra di sé in “Apocalypse now”. Le azioni autogiustificano (e autogratificano) nel convincimento, addirittura inconscio, di essere superiori ai vietcong. Forse Coppola e Milius non ne erano consapevoli fino in fondo, ma è ciò che esprime il personaggio di Kilgore così come l’espressione “Charlie don’t surf“. Io ti stermino per poi fare surf: è un mio paradossale legittimo diritto. Faccio la guerra negli orari d’ufficio, poi stacco e vado a godermi l’onda. A casa tua. Sulle tue rovine.
Se la giustificazione etica di matrice religiosa è scomparsa, ne è rimasta una di matrice politica (di cui anche si sono peraltro quasi perse le tracce): la “guerra giusta” al comunismo. Ipocrita difesa del valore della libertà, di cui sempre la civiltà occidentale si fa fregio. L’ipocrisia morale dell’occidente è il tema centrale di “Apocalypse now”. Una giustificazione pseudo-etica al soldo di una volontà di potenza.
“Apocalypse now” è strutturato come climax che conduce al colonnello Kurtz. Il colonnello Kurtz, scheggia impazzita, rappresenta un pericolo destabilizzante per lo stato maggiore (al contrario di Kilgore, che è innocuo, e fa il gioco dei padroni). Kurtz è un pericolo perché ha smascherato l’ipocrisia.
Kurtz è lo specchio in cui non ci si vuole specchiare: al suo cospetto, o lo si nega e lo si uccide, o lo si accetta e lo si soppianta. Portando così in fondo la propria volontà di potenza. Di ascendenza, archetipicamente, edipica. In entrambi i casi, this is the end.
Solo non vedendo cosa Kurtz intende rappresentare, e dunque rientrando nei ranghi dell’ipocrisia istituzionalizzata della guerra giusta, lo si può sopprimere e tornare vincitori.
Sono i tre finali fra i quali Coppola è rimasto indeciso sino all’ultimo.
C’è chi individua un’ambiguità di fondo, in quest’opera intrisa di decadentismo: una voluttuosa indulgenza nell’orrore, che rischia di non indurre nello spettatore un vero distacco critico.
Ma se “Apocalypse now” – come credo – ambisce a essere non un semplice film sull’orrore della guerra, bensì un film sulle estreme conseguenze della civiltà occidentale, è necessario che il film incuta una fascinazione e una vertigine. Scrutare nell’abisso, come vuole Nietzsche, implica che l’abisso scruti dentro di noi. “Apocalypse now”, con le sue valchirie, è in fondo la messa in scena di quel celebre aforisma nietzschiano.
Non a caso parla di volontà di potenza, di un superuomo, e della civiltà occidentale nelle waste lands della propria megalomania.